FANS

L’Ossimoro perfetto
(parte seconda)

 

 

Provai a chiedergli delle spiegazioni. Una perdita di tempo. Quelli come lui non fanno niente di sensato. Lo avevo sempre saputo, tutti mi avevano messo in guardia sul suo conto, né lui aveva mai mentito sulla sua instabilità affettiva. Io no. Io ci ero entrata con tutta me stessa e ci avevo creduto fino in fondo. Amo le sfide, mi sarei spaccata la testa piuttosto che rinunciare per paura di fallire. Era la classica sconfitta quotata dai bookmakers a 1.15. Tutto come previsto. Testa fracassata.

“Me ne vado. Grazie di tutto”, e poi gli accarezzai il volto e gli diedi un bacio sula guancia. Vidi i suoi occhi brillare, la sua convinzione vacillò per un istante, ma non mi fermò. Chiusi la porta dietro di me e sparii nella notte.

Passarono giorni prima che ci rivedessimo. Quel vecchio stronzo con la faccia da sbruffone mi mancava da morire. Sapevo che ci sarebbe stato anche lui quella sera, alla festa di una nostra amica comune. Non ero pronta a lui, non ero nata pronta, ma dovevo farcela. Per l’occasione scelsi l’abito più sexy che avevo. “Non ti darò la soddisfazione di vedermi depressa, fanculo”, pensai malignamente, guardandomi allo specchio mentre sotto la maschera all’argilla la mia faccia si mummificava e i bigodini tentavano di domare i capelli imbizzarriti. “Stasera ti faccio schiattare”. Finito il restauro, entrai nel panico. Che effetto mi avrebbe fatto rivederlo?  Mi imposi di apparire rilassata, all’uopo mi scolai una birra. Dentro ero tutta un tumulto. Sono sempre stata caos. Fu un’ogiva al cuore. Il gelo. Eravamo tornati ad essere due estranei, dopo aver amalgamato e per niente fuso le nostre anime in un tutt’uno. Due perfetti sconosciuti che si copmprendevano meglio di chiunque altro… senza la nostra complicità mi sentivo una lillipuziana nella terra di Brobdingnag, completamente fuori luogo; avrei voluto scappare via, ma non lo feci, indossai la mia maschera migliore e strinsi i  denti. Non mi sarei fatta mettere all’angolo mai più nella mia vita, non gliela avrei potuto dare questa soddisfazione. Lo osservavo da lontano. Anche lui era a disagio, non era brillante come al suo solito, gli mancavo, ne ero certa. Poteva ingannare gli altri con i suoi occhi di ghiaccio, ma noi due conoscevamo la verità. Non saremmo mai tornati ad essere quelli di prima, non dopo esserci entrati dentro, così prepotentemente. Credeva davvero di poter cancellare ogni cosa? Non aveva fatto i conti con quell’incredibile pozzo di emozioni che gli avevo scavato nella mente.

E sentivo che non era finita.

Mi sembrava una pessima idea trascorrere la festa di Capodanno insieme, ma non mi andava di rinunciare per evitare la sua compagnia, dovevamo trovare il modo di coesistere.  Stava per finire un anno importante, difficile ma decisivo, pieno di cambiamenti. La fine di un capitolo e la dolorosa rinascita a vita nuova. Allo scoccare della mezzanotte, nel trambusto generale di auguri e champagne, ci ritrovammo uno di fronte all’altra, visibilmente emozionati. Quello che c’era stato tra di noi, per quanto assurdo, aveva segnato entrambi. Mi abbracciò e mi sussurrò “incontrarti è stato il regalo più bello che mi sia capitato quest’anno… lo sai quanto ti voglio bene?”.

Certo che lo sapevo. E sapevo che saresti tornato, stronzetto di un Peter Pan.

Fare l’amore con lui era una roulette russa, una sfida continua per tentar di superare il confine tra realtà e immaginazione, ogni volta una scoperta che richiedeva dedizione e leggerezza, era uno stato di ebbrezza ed eternità. Nell’unione dei nostri corpi placavo i miei tormenti, smarrita, dentro di lui, ritrovavo me stessa. Mi drogavo di lui e più mi “facevo” più ne avevo bisogno. Lo odiavo profondamente. Una vertigine che mi distruggeva e mi ricreava ogni volta. Lo sovrastavo con la mia sensualità, si abbandonava a me e si lasciava condurre nel mio inferno. Mi piaceva troppo quella testa di cazzo, sapeva di essere il mio punto debole e si divertiva a torturarmi. Io glielo lasciavo fare, perché quel tormento mi eccitava fino a stordirmi.

Eppure sentivo forte l’orgoglio di non potermi accontentare di essere un’alternativa, volevo essere la Scelta, l’unica possibile. Non ero più una ragazzina fragile e impaurita. Mi aveva spinto al di là delle mie insicurezze; non ero più una ninfa dei boschi, ero diventata la dea Artemide, ero il bosco. Il suo continuo divincolarsi mi infiammava di una collera profonda. Non volevo incatenarlo al suolo, desideravo librarmi in volo insieme a lui. Questo non lo ha mai capito.

In pubblico continuavamo a comportarci come due vecchi amici, noi che non lo eravamo mai stati. Impossibile, dopo tutto quello che c’era stato, perché, che lo ammettesse o no, il nostro legame era stato una deflagrazione e aveva sconvolto entrambi.

Iniziò la fase “oggi ti desidero, domani non ti cago”. Odio l’ambiguità, l’alternanza. Voglio tutto e voglio che sia straordinario e pazzo come me, voglio che bruci, voglio che faccia male. Il purgatorio deve essere un luogo tristissimo, non fa per me… Non posso essere accidente io voglio essere l’Evento. Sono uragano, magma che ribolle nelle viscere della terra, onda che si infrange violenta. Non brezza leggera, ma tempesta. L’esplosione e la passione che divampano.

Riprese la sue abitudini da coglionazzo immaturo, feste, donne improbabili, cosce di pollo sui tacchi a spillo, il Nulla.

Nonostante tutto, sentivo che sarebbe tornato, ancora una volta. Sarebbe tornato sempre, per scappare ancora. Sarebbe scappato sempre. Ma non puoi fuggire da qualcosa che è dentro la tua testa. “Prima o poi dovrai farci i conti anche tu, ridicolo zebedeo antropomorfo” mi ripetevo ogni volta che lo vedevo strusciarsi anche ai pali della luce, scambiandoli per avvenenti meretrici. La vena giugulare si gonfiava fin quasi a scoppiare.

Mi allontanai. Mi mancava e non smisi mai di pensare a lui, non glielo avrei mai detto ma, probabilmente, non sarebbe stato necessario… lo sapeva. La nostra non era stata una storia affettiva. Era Amore con dentro una storia. O, forse, una storia con dentro l’Amore. Per questo non sarebbe mai finita veramente. Almeno allora così credevo.

 

 

 

Pochi giorni fa il suo compleanno. Mega “puttanaio party”, ovvio. Gli ho fatto recapitare un biglietto: “tutto quello che amo cerco di trasformarlo in qualcosa di meraviglioso proprio come il  nostro legame. Unico e straordinario. Qualsiasi cosa accadrà, porterò sempre con me il ricordo di quella notte stellata a Budapest, quando il tempo sembrava essersi fermato nell’istante perfetto. Tu sei stato per me l’Inaspettato che sconvolge e travolge, il mondo nuovo oltre le Colonne d’Ercole. Sei stato il mio coraggio, la mia disobbedienza. Quello che non è accaduto non ce lo scorderemo mai. Buon compleanno”.

A giudicare dal silenzio di questi giorni, deve averlo apprezzato molto. Figlio di puttana. “Tanto lo so che è tutta strategia, non mi freghi con questi giochini puerili” penso ad alta voce, mentre maltratto la pasta frolla per la crostata. Mia madre mi guarda rassegnata, se si mette in cattedra e attacca con la storia della sindrome della “crocerossina”… me la magno. Che, poi, c’ha pure ragione, devo smetterla con gli stronzi.

“Devi trovarti un signore per bene, che ti regali fiori, ti dedichi poesie, esaudisca ogni tuo desiderio, il principe azzurro, e se non è proprio azzurro, che sia almeno un vero principe Nero. Ecco… la devi finire di comportarti come Cappuccetto Rosso che aspetta il lupo cattivo…” mi dice sottovoce, sperando che non diventi una iena. Non ce la fa proprio a non dire la sua… “Uno con la pazienza di tuo padre, perché tu sei insopportabile, quelli normali li fai scappare tutti, Ilariù”. Quindi, mia madre, in sostanza, sostiene che il problema sia io. Interessante, non l’avevo mai vista da questa prospettiva… non ha tutti i torti.  Quelle come me ti costringono a guardarti dentro, a tirare fuori la tua essenza, perché io non mi accontento della banalità, io voglio il massimo in tutto. Quelle come me non si amano e non si odiano, semplicemente si adorano. Sono istinto ed energia, adrenalina e malinconia, impeto e tenerezza.  Voglio il sogno più romantico, la passione cieca e abbagliante, profondità e torbido. La vita devo sentirla pulsare nelle vene. Occorre aver coraggio e rispetto per avventurarsi nel mio labirinto. Sono pericolosa. Come un farmaco, che è sia medicina ma anche veleno, posso essere letale. Non sono per tutti, solo per pochi. Esseri rari, poiché io lo sono. “O Superba Madre Tonante, che mi generasti a tua immagine e somiglianza, non sei tu forse insopportabile?!” Gli uomini come mio padre, non esistono più, rassègnati.

Sono trascorsi mesi ormai. Ho iniziato una nuova avventura, chissà dove mi porterà… Finalmente faccio quello che mi piace. Di Jacopo non ho più notizie. So solo che si è trasferito, quel demone starà infestando nuove terre, con quel malefico profumo di Big Babol, nuove appestate, nuovi ratti contaminati, va be’, nuove zoccole.

La vita senza di lui è un po’ più spenta, monotona. Dipingevo le mie giornate con i mille colori della sua follia, mi manca tutto quello splendore. Mi manca la luce del sole che al mattino ci sorprendeva già sorridenti, mi manca la sua faccia da schiaffi. Ho sofferto per la sua incostanza, ma quel dolore non mi ha spezzato il cuore, lo ha ricreato pieno e pulsante. La mia palingenesi tanto attesa. E mia madre e il Drago lo sapevano, la desideravano, già pregustavano che sarei rinata. “Ilariù, lo ha mandato Dio o almeno il demonio”.

Stamattina sono uno zombie, ieri sera ho tirato fino a tardi… devo rianimarmi. Caffè. Dopo aver buttato giù il liquido miracoloso, provo ad interrogare la mia tazzina. Mi ha sempre affascinato questa storia della caffeomanzia… No, non vi intravedo principi azzurri con la faccia di mio padre, dovrò farmene una ragione. Solo muri da abbattere, un muro da cui affacciarsi. Un varco. Un muro da abbattere a testate, perché esso è solo nella nostra testa. I soliti mulini a vento.

Suonano alla porta… come sempre, sarà la solita setta di testimoni di Geova che mi perseguita tutte le domeniche mattina. Vado ad accoglierli, con la faccia devastata che mi ritrovo, non farò fatica a farli scappare. Spalanco la porta. Rimango senza fiato. “Scusa se non ti ho avvisato… tanto tu lo sai che arrivo sempre all’improvviso”.

È lui, è tornato.

Suona la sveglia…  stramaledetta sveglia! Era soltanto un sogno. L’incubo peggiore.
 

di Ilaria Di Leva

 


 


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