cronache di capocchia

Pied-à-terre – quinta parte.
Tratto da Psycho Zombie Horror Show vol. II

di Nicola Capocchia*

 

 

Tutto quello che accadde dopo l’incontro col vice di Caputo? Il nulla, mi svegliai madido di sudore, coperto da un lenzuolo verde in un letto di un ospedale. Un’intermittente e accecante luce trapelava dalle lamelle orizzontali delle finestre. Il finestrone era certamente meglio rispetto al minestrone, l’olezzo della sbobba era peggiore del puzzo di disinfettante. Mi girai verso sinistra, Nick mi stringeva una mano, l’altra era fasciata, avvertì quella sensazione da post intervento operatorio di avere un gommone al posto del braccio. Nell’intorpidimento scossi il capo, sorrisi a Nick, annuì biascicando qualche parola:

«Ma che diav… è sussesso?»

«Non preoccuparti Nicola, potrai ancora farti le seghe, ti hanno amputato il dito della mano destra, tranquillo ho già chiesto, caro giornalista, che ti inseriscano un pennino come moncherino. Il dito è ancora immerso in quella scatola di formaldeide appoggiato sul comodino».

Mi voltai con i movimenti di un bradipo, focalizzai il mio dito, accanto l’ultimo libro di Gioachino Ventura, guardai la fasciatura e svenni.

La sensazione che avvertii fu quella descritta da chi ha fatto ritorno dall’aldilà. Una soave lentezza si impossessò di me e nonostante le urla concitate di Nick, il maneggiare del personale sanitario che armeggiava sul mio corpo, mi immersi lentamente in un oceano di tranquillità, un’estasi celestiale.

Ero paralizzato, una rinascita dalla vagina di Nick nell’annunciarmi l’amputazione. Sentii di essere avvolto in una sorta di culla spaziale, luccichii di stelle, il rumore dell’universo. Le voci cariche di adrenalina che si susseguivano erano ovattate da un’incredibile sensazione di beatitudine. Il viaggio nella culla spaziale proseguì per un periodo che non ho mai quantificato, un minutaggio d’infinito. Se il nulla fosse l’infinito e se l’infinito fosse così, fatemi morire ora. Nel lento girovagare dell’universo, rividi sopra i miei occhi una moltitudine di stelle, ogni tanto si scorgevano momenti di vita quotidiana che si proiettavano da tubi catodici di immagini di una festa dark, ero disteso sul pavimento e nell’incantesimo cercavo una dolce metà che si componeva con i granelli di un caleidoscopio.

Gli antidolorifici probabilmente oppioidi, stavano facendo effetto. Ad un certo punto, quando il tramadolo entrò in interazione con la noradrenalina e la serotonina, iniziai a produrre allucinazioni. Su un campo di calcio si affrontavano i Whiskey Bourbon contro gli Schizodittatori. In porta per gli Schizodittatori, sembrava esserci Nerone, sceso in campo con sandali non regolamentari e tunica bianco rossa che sollevava per spaventare gli avversari, bruciando i palloni di calcio con pericolose fiammate che partivano direttamente dal suo buco del culo. In attacco per i Whiskey Bourbon un logorroico Groucho Marx con un sigaro spento tra le labbra esclamò: «Nerone fammi accendere», vidi una fiammata ed un paio di occhiali che rotolarono sul campo di calcio, raccolti da una figura filiforme, rassomigliante a George Bush senior il quale acchiappò gli occhiali, l’inforcò e disse: «Esporteremo una bomba di democrazia in Iraq con intelligenza». Nel cielo vidi passare il generale Schwarzkopf che cavalcava tenendo le redini di un missile Tomahawk, seguito da bombardieri Stealth F-117A Nighthawk e cacciabombardieri F-4 Phantom II. Fui colpito da una pallonata sul viso, probabilmente erano i buffetti di Nick per farmi rinvenire. Il pallone rotolò per alcuni metri e finì sotto il piede di Winston Churchill, allenatore degli Schizodittatori, rimise il pallone in campo e fischiò un inesistente calcio di rigore a favore dei Whiskey Bourbon ed esclamò: «Meglio tenerseli buoni». Winston ridisegnò l’area di rigore e riscrisse le regole del calcio. Sul dischetto si avvicinò la figura di un uomo vestito di pelle nera aderente, un paio di stivali cingolati, si aggiustò un ciuffo dei capelli, sembrava Adolf Hitler, calciò di prepotenza e di destro con il braccio alzato e teso verso il pubblico della curva nord, portò in vantaggio i Whiskey Bourbon. Era Charlie Chaplin. A centrocampo il vero Adolf Hitler si accasciò per terra ed iniziò ad urlare di dolore, toccandosi il polpaccio della gamba destra: «Mein Kramp, mein Kramp, mein Kramp». Bob Marley numero dieci dei Whiskey Bourbon gli si avvicinò urlando: «Concrete Jungle!!!». Stalin gli sparò alle spalle con una Tokarev TT-33: «Negro di merda muori!». I whiskey Bourbon erano in vantaggio di un gol ma giocavano ormai in 9. Osvaldo Soriano, allenatore dei Whiskey Bourbon mi si avvicinò, mi pigiò il torace più e più volte come se stesse mescolando acqua e farina e gridò: «Adrenalina, adrenalina».

Macario rubò il pallone e lo posizionò dietro la spalla proprio dentro la sua maglia numero otto, cominciò a dribblare vari avversari che tentarono di placarlo. Kim Jong un, Mahmud Ahmadinejad e Donald Trump si misero all’inseguimento di Macario che innervosito proclamò: «Ma voi chi cazzo siete per impedire tutto ciò», innescò una velocità da centometrista, smarcò con disinvoltura Nicolae Ceaușescu, sputò in faccia a Borghezio, riprese la palla con le mani e riuscì a posizionarla oltre la riga bianca di porta. L’arbitro, Augusto José Ramón Pinochet Ugarte da Santiago del Chile, annullò il gol. Macario sparì nel nulla, un capannello di sette giocatori dei Whiskey Bourbon attorniò l’arbitro per protestare, li vidi cadere tutti uno per uno. Il novantesimo stava per scadere. Undici contro uno. Il Buddha era seduto in porta, spaccò il cemento dalle sue gambe, si sollevò, era una creatura immensa, inseguì i suoi avversari, li schiacciò tutti, afferrò l’arbitro e lo fece roteare e lo lanciò in aria, scaraventandolo in una pozzanghera d’acqua salata formatasi a pochi metri dalla porta avversaria. Prese il pallone, se lo strofinò sotto le ascelle e con uno schiocco di dita lo lanciò in porta. Goooooooooool 2-0. Bukowski fisioterapista della squadra vittoriosa mi asciugò la fronte grondante di sudore e mi sussurrò: «Ce l’hai fatta, figlio di puttana».

Tutto quello che accadde dopo l’incontro di calcio? Mi svegliai madido di sudore, coperto da un lenzuolo verde in un letto di un ospedale. Un’intermittente e accecante luce trapelava dalle lamelle orizzontali delle finestre. Il finestrone era certamente meglio rispetto al minestrone, l’olezzo della sbobba era peggiore del puzzo di disinfettante. Mi girai verso sinistra, Nick mi stringeva una mano, l’altra era fasciata, Matt la guardava, avvertì quella sensazione da post intervento operatorio di avere un gommone al posto del braccio. Nell’intorpidimento scossi il capo, sorrisi a Nick e Matt, annuì biascicando qualche parola:

«Ma che diav… è sussesso? Abbiamo vinto?»

«Non preoccuparti Nicola, potrai ancora farti le seghe mentali, ti hanno amputato il dito della mano destra, tranquillo abbiamo preteso, caro giornalista, che ti inseriscano un pennino come moncherino. Il dito è ancora immerso in quella scatola di formaldeide appoggiato sul comodino, accanto all’ultimo libro di Gioachino Ventura».

«Maledetti fratelli Ballettieri» esclamai, guardai il libro e risvenni.

 


 

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*Nicola Capocchia è giornalista della Gazzetta del Popolo, redattore del magazine ilovezombie.it

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