cronache di capocchia

Pied-à-terre – settima parte.
Tratto da Psycho Zombie Horror Show vol. II

di Nicola Capocchia*

 

 

Maledissi la decisione di passare la convalescenza a casa dei miei genitori.

Avevo deciso di pedalare per le stradine del centro storico, l’avessi mai fatto. Era tutto cambiato nella città dei miei, persino il sapore della pioggia aveva un gusto diverso. Fui investito da una secchiata d’acqua e putridume, sollevata da un provetto automobilista da strapazzo.

Al cellulare Nick continuava a ripetermi che il karma prima o poi sarebbe migliorato e che presto avrei avuto notizie dettagliate sul pied-à-terre.

Oltre alla perdita di un dito rischiavo la perdita del lavoro. Il maledetto direttore del Giornale del Popolo non fu certo contento di sapere delle mie traversie.

«Sì pronto Direttore, sono Nicola Capocchia»

«Sì mi dica Calecchia, velocemente che sono in video conferenza»

«Direttore, sono in convalescenza, mi hanno amputato un dito della mano destra, le invierò il certificato di malattia on line, il numero della pratica è 65467»

«Cagocchia, ho saputo, non sono certo io che devo occuparmi di questioni così ridicole, chiami la mia segretaria»

«Direttore ci tenevo a farle sapere che l’intervento è riuscito e che tra quindici giorni tornerò al lavoro»

«Signor Cappocchia, un dito in meno non può certo inficiare il suo lavoro, sa benissimo che ai tempi d’oggi può scrivere un articolo in modalità vocale, non sono certo io che devo preoccuparmi di faccende così goffe»

«Direttore ma mi scusi, si renda conto, io sono davvero costernato ma ho bisogno di una pausa»

«Senta Signor Cafocchia, la cronaca non va in ferie, quindi si rimetta subito al lavoro altrimenti mi vedrò costretto a sbatterla a scrivere i necrologi. Chiami la segretaria!».

 

Feci cadere la comunicazione, avrei voluto ficcargli la stecca di Zimmer nel deretano e girarla in senso orario e antiorario.

Mi diressi tutto inzuppato a casa di mia madre. Papà era in giardino che curava le sue amate piante aromatiche, non si accorse del mio arrivo. Mamma mi disse che avremmo mangiato una crudaiola con il basilico fresco e biologico di papà. Mamma non si accorse dei miei vestiti fradici. Ero inebriato da tanto amore.

La nonna, invece, viaggiava a tre cilindri, ormai da mesi, gravitava dalla poltrona al divano, dal divano al letto, dal letto al cesso, quando riusciva ad arrivarci senza farsi addosso.

«Mamma la nonna è peggiorata molto»

«Ma che ne sai… sta meglio di me, io piuttosto ho un’artrite reumatoide dolorosissima, l’ipertensione, l’alluce valgo non mi fa camminare. A papà hanno trovato una tiroidite di Hoshimoto e la nonna rompe i coglioni. Scusa figliolo ma quando ci vuole, ci vuole».

Insomma, cercavo cure amorevoli, una pausa d’affetto ed invece…

«Ciao nonnina, come stai?» mi rispose con una scorreggia.

«Non preoccuparti Nicola, ha il pannolone»

«Mamma ma non mi ha riconosciuto»

«Avvicinati e parlale nell’orecchio, è completamente sorda»

Mi avvicinai e le dissi: «Ciao Nonnina sono Nicola».

Ebbe un lestissimo scatto in avanti e mi abbracciò con bramosia, cercando disperatamente di baciarmi.

Avvertii un attimo di repulsione.

«Nonna ma che fai, dai, no, non fare così».

 

Mi avviluppò le braccia al collo. La nonna, novantadue anni, il suo modo frenetico di baciare non era cambiato affatto. Le sue labbra come una pompa idrovora, una suzione prolungata e ripetuta, intervallata da schiocchi tumidi di piacere e le sue mani che si prolungano con le dita avvizzite come ossuti tentacoli attorno alla gola. L’asfissia del suo angosciante abbraccio, una stretta lugubre, come quella di una dinamo scarica in cerca di energia vitale. Nella sua bocca si intravedevano, oltre a rimasugli di pastina al formaggio e pesce, gengive logore e peste, angiomi violacei incavati come le ventose dei polpi, i denti erano ormai un souvenir d’avorio. Sembrava nonna da sempre, i solchi sul viso come un terreno arato, pareva non voler morire mai. Ma davvero poppava la vita degli altri con i suoi baci? Questo era l’incubo più mostruoso della vita, la vecchiaia.

Mi divincolai con fatica dalla presa, mi ripulii la barba da pezzi di stoccafisso e le chiesi:

«Come stai?»

«Chiedilo a quella baldracca di tua madre e a quel rincitrullito di tuo padre, non vogliono farmi operare di cataratta e si fregano tutti i soldi della pensione»

«Nicola il cervello della nonna è cotto»

«Dove sono i miei soldi, ridammi i miei soldi, vecchia bacucca» continuò a ripetere come un vecchio pezzo di organo in decomposizione.

«Nicola perché non vai a riposarti nella tua stanza?»

Presi il consiglio al volo e mi diressi nella stanzetta, aprii la porta e il mio letto non c’era più.

«Ma mamma il letto non c’è più»

«Il sonno è un buon materasso per la stanchezza. La prossima volta avvisami prima, appoggiati sul letto della nonna».

Ormai ero lì e sarei dovuto rimanerci per altri quattordici giorni, che disdetta.
 


 

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*Nicola Capocchia è giornalista della Gazzetta del Popolo, redattore del magazine ilovezombie.it

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