cronache di capocchia

Pied-à-terre – ottava parte.
Tratto da Psycho Zombie Horror Show vol. II

di Nicola Capocchia*

 

 

Il pranzo a casa dei miei trascorse in maniera fluida, lubrificato dall’olio di oliva di produzione paterna.

Finalmente mio padre, ormai settantenne, si accorse della mia presenza e mi rivolse le prime parole, inspirò aria nei polmoni, girò le sclere verso l’alto e in piena crisi mistico-biologica disse:

«Ciao Nicola, hai sentito le proprietà organolettiche di quest’olio? Spargilo su un pezzettino di pane abbrustolito. Che odore! Che colore! Che gusto!».

Non mi chiese come stessi, come avessi perso il dito, era completamente incentrato sulle sue produzioni agricole da pensionato, per lo più biologiche. Lo ringraziai comunque.

Mamma si lamentava di improvvisi dolori alla mandibola, simulando di mordere il cranio della nonna. Almeno lei riusciva a farmi sorridere.

Nonna inveiva contro i politici che uscivano a frotte dalla televisione apostrofandoli più o meno in questo modo: «Bastardi, ridatemi la pensione, rispondete alle mie lettere almeno!!! Liberatemi da questi due carcerieri!!!».

In effetti nonna era come se ragionasse a colpi di mantice, papà a pala eolica.

Decisi che sarebbe stato meglio farmi due passi, e così feci. Terminai di pranzare, aiutai a sparecchiare la tavola, finalmente avvertii una sensazione positiva quando mamma mi mise la mano tra i capelli, peccato che fosse piena del sapone per i piatti. Mancavano ancora tredici giorni alla partenza.

Mi trovai per strada e cominciai a camminare in un campo incolto, perdendomi nei ricordi del passato, nulla era mutato rispetto a trent’anni prima. In effetti papà aveva ragione sui sapori, colori e odori della nostra terra, arrivavano forti. Ai margini della strada potevo scorgere addirittura alcuni asparagi, ne raccolsi uno e lo avvicinai verso il naso, era stato nutrito dal piscio dei cani. Che sfiga, una lucertola sonnecchiava adagiata su una pietra, in attesa del ritorno dei dinosauri, le farfalle gironzolavano sui papaveri e caccialepri, addirittura riconobbi la melissa e pensai di volerne aspirare in gran quantità per alleviare i miei momenti di depressione familiare. Celebrai ad un tratto i momenti ludici vissuti da bambino, giochi ormai scomparsi, il gioco delle sette pietre, spara-cannone, una monta la luna. Giocherelli sostituiti da divagazioni virtuali assai deleterie. Avvicinai il cellulare per controllare se avessi ricevuto chiamate dal direttore della Gazzetta del Popolo o da uno dei fratelli Ballettieri, nulla, il cellulare era morto, mi sentivo solo. Sorrisi quando in un anfratto del terreno intravidi il cocomero selvaggio e ricordai che da bambino raccoglievo i frutti per spruzzarne il contenuto contro alcuni malcapitati. Insomma divagavo, contando i minuti rimanenti alla fine della giornata.

Continuai a camminare, mi ritrovai, sospeso nei pensieri del passato, nei pressi di un vecchio sansificio abbandonato. Le gesta eroiche da bambino mi ritornarono in mente, lo occupammo per mesi, ergendolo a pensione per gatti e cani, difendendolo dai feroci attacchi dei bambini degli altri quartieri. Pur di proteggerlo, innescando vere e proprie guerre, innalzammo barriere difensive con lancio di pietre, sputi, lance di legno, fionde e colla per topi. In un assalto riuscii a colpire un bambino con la colla per topi, lui fu costretto a radersi i capelli a zero, io fui menato dal fratello maggiore e poi ebbi il resto da mio padre.

«Nicola! Nicola!» mi sentii chiamare a gran voce, mi voltai, era Carlo Lo Vecchio, incredibile.

Mi fermai, mi raggiunse, sorrise e mi strinse vigorosamente la mano, nonostante la stecca di Zimmer. Non mi chiese come stessi, pur notando l’evidente fasciatura e cominciò a parlare:

«Hey Nicola, sono Carlo, sono qui da una settimana circa, mi hanno catturato in un supermarket mentre rubavo approvvigionamenti per i poveri. Non si sta poi tanto male in questo buco, per lo meno non dobbiamo aver paura delle carcasse ambulanti».

Non riuscivo più a seguirlo e continuò le sue elucubrazioni mentali:

«Io mi occupavo di economia quando la vita era bella, ero fautore del lean management, insomma produzione snella, ero a capo dell’équipe di una famosa azienda internazionale che sviluppava sistemi per migliorare la vita dei nostri dipendenti, attraverso l’ottimizzazione delle prestazioni, i subalterni in pratica dovevano lavorare in condizioni di enormi libertà. Il lunedì per esempio gli impiegati avevano diritto ad una lezione di yoga, non che fosse gratis, per carità, si decurtava un 50% della seduta dalla busta paga del lavoratore. Vere e proprie carinerie padronali per far sovraprodurre i nostri schiavi, i nostri lavoratori. 500 milioni di fatturato annuo, 2500 dipendenti, 8 fabbriche di preservativi preconfezionati in tutta Italia, in barba alla chiesa cattolica, come vedi sono stato anch’io un rivoluzionario, non guardarmi con quell’aria truce e schifata. Pensi che io sia pazzo? Credi che debba farmi controllare da uno strizzacervelli? Quella stronza, è colpa sua se ho perso il lavoro, quella troia, mi ha abbandonato come quei cani che curavamo da bambini. Nicola, vieni con me ti porto nella mia villa in campagna, dai, che bello rivederti dopo trent’anni»

«Ho solo un forte mal di testa, Carlo, vado a casa dei miei a prendere un anti-dolorifico».

Insomma cercai di divincolarmi da quest’altra morsa letale. Carlo ormai era schiavo della psichiatria.

Ad un tratto un capannello di motorini attorniò Carlo e cominciarono a girargli attorno come indiani cheyenne che stanno per fare il culo agli yankee. Un polverone si sollevò. Carlo sembrava in balia di questo mostruoso atto di bullismo. Si inginocchiò e portò le mani al capo. Una vera e propria baby gang, capeggiata da un arrogante bamboccio in età prescolare, diciottenni da strapazzo.

Sentii montare la rabbia, il capo degli smargiassi maneggiava un bastone che iniziò a volteggiare per aria. Carlo era sopraffatto, e poverino non reagiva, in un assoluto mutismo. Ricevette una potente vergata dietro le spalle che lo piegò sul terreno. Ero soggiogato anch’io, pensai di chiamare le forze dell’ordine, calcolai velocemente il tempo di arrivo e feci abortire l’idea, mi guardai attorno e vidi che alcuni omertosi abitanti del quartiere si intrufolarono nelle proprie abitazioni, un coglionazzo da un balcone cominciò a filmare col cellulare. Decisi di intervenire, mi precipitai verso i bastardi, urlando e facendo piroettare la stecca di Zimmer come fosse una motosega. I bulli si accorsero del mio arrivo e si diressero verso di me, mi circondarono, fermarono i motori, il capetto scese e si rivolse in maniera superba:

«Ehi coglione» e mi colpì al viso con uno schiaffo, rimasi imperterrito, cercai di mantenere la calma. Con la coda dell’occhio mi accorsi che Carlo si era rialzato e barcollava verso di noi.

«Pezzo di merda, che cosa pensi di fare» e mi assestò un manrovescio, quasi caracollai.

«Figlio di puttana!» e mi percosse col bastone sulla testa. Sulla sua attestazione di stima, pensai a mia madre, a mio padre, a mia nonna, al direttore del giornale, al mio ex dito. Non ci vidi più.

Collocai le mani davanti al viso, lo spaccone sorrise, e innescò il movimento del braccio per colpirmi nuovamente col bastone. Lo bloccai col braccio e gli infilai la stecca di Zimmer in gola, proprio sul pomo d’Adamo, uno scricchiolio di cartilagine si propagò nell’anfiteatro dello scempio. Il coglione si portò le mani alla gola, facendo cadere il bastone, lo raccolsi da terra. Erano in molti, molti codardi, perché cominciarono ad indietreggiare, scattai verso quello che sembrava il vice-bastardo, alle mie spalle intuii l’arrivo di un cazzotto, mi girai di scatto e col gomito colpii la mandibola di un altro vermiciattolo che cominciò a sputare sangue e denti dalla bocca, afferrai saldamente il bastone tra le mani e con cieca violenza battezzai la fronte del vice che crollò sul terreno come uno stronzo appena espulso dal buco del culo. Ne rimanevano tre che pensarono bene di rimettere in sesto la gang e darsela a gambe levate.

Il capo tentò di bofonchiare qualcosa: «Io ti ammazzo», simulai di rincorrerlo, e scappò via con la coda tra le gambe. Si rimisero in sella e se ne andarono.

Carlo si avvicinò a me e disse:

«Mi manca il mio passato, Francesca te la ricordi la sua voce metallica del venerdì mattina in un orario alquanto insolito, dopo il primo impronunciabile sbadiglio appesantito dalle uova marce decomposte della notte, e tu amore mio che mi sorridevi, invitandomi a liberarmi la bocca di merda con spatole di metallo. Volevo solo svincolarmi dalla porcilaia ed essere prosciolto da un’infamante accusa che suonava pressappoco così: non sei la persona che amo».

La testa di Carlo era completamente cotta da un amore finito, che disdetta.

«Carlo, stasera sei mio ospite, fanculo Francesca, fanculo i bulli, fanculo l’amore. Andiamo in quel pub frequentato da quelle adorabili fanciulle universitarie».

Mi voltai verso il film-maker appollaiato come un avvoltoio sul balcone di un condominio, stava ancora filmando, portai il bastone per aria e con le due mani lo spezzai a metà sulla gamba. Gli simulai con gesti che sarei salito per chiedere la cancellazione del video e così feci, come una furia indemoniata andai verso il portone per salire dall’uccellaccio con la videocamera, tanto sapevo chi fosse, me lo ricordavo benissimo…

Intanto un bitorzolo sulla tempia mi ricordava che ero stato quasi incaprettato e buttato per terra da quattro ex portatori di pannolini per poppanti.
 


 

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*Nicola Capocchia è giornalista della Gazzetta del Popolo, redattore del magazine ilovezombie.it

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