Racconti brevi

Lia

 

Era da bambina esile come un fiammifero, occhi verdi e un po’ grigi, i capelli biondi come una norvegese, un sorriso che aveva tutti i colori dell’arcobaleno. Carattere fiero e orgoglioso. Una piccola scheggia impazzita.  Sembrava una principessina delle fiabe ma sapeva difendersi come un rottweiler; puntualmente ogni mattina faceva a cazzotti coi bulletti della scuola, che istigava con le sue maniere spocchiose. A casa giocava a fare la vamp, s’infilava le scarpe della madre e barcollava vanitosa sui tacchi a spillo. Durante una delle sue sfilate, si rotolò per le scale, procurandosi una profonda ferita al mento, che ancora sfoggia con soddisfazione, il segno della sua primigenia indomabilità. Era sempre di buonumore e cantava, lo faceva spesso, stonava come una campana ma non gliene fregava niente, si credeva un usignolo.

La vita era un gioco meraviglioso per Lia, non piangeva mai. Viveva in campagna, la sua era una famiglia di pastori e agricoltori. Amava le galline che al mattino andavano a darle il buongiorno nella sua mansarda; amava Peppino, il fulvo micione dispettoso e distratto che si bruciò la coda, dormendo troppo vicino al fuoco del camino… quello scimunito. Giocava coi maiali, i suoi teneri cuccioli puzzolenti. Va be’, sarebbero finiti in salsicce, ma lei li adorava lo stesso. Alla brace erano buonissimi. Il suo spirito bucolico era limitato agli animali della fattoria. Non andava mai con la mamma nei campi, ogni pomeriggio attendeva il suo ritorno, preannunciato dallo scampanellare del vecchio asino Giosuè. Solo una volta decise di farle compagnia, era la stagione delle ciliegie, volle saggiamente testarne la bontà prima che fossero raccolte, ma non aveva fatto i conti con la sua fobia per insetti e serpenti. Qualcuno ricorda ancora le grida demoniache di quella bimba quando, per sbaglio, pestò una biscia seminascosta nella vegetazione: una piccola satanassa invasata che scappava terrorizzata, col grembiule colmo ‘e cerase. Sua madre rise per giorni. Era il suo orgoglio.

Volle a tutti i costi quella figlia, frutto di una breve relazione con un uomo che non sapeva essere sposato. Si amarono di una passione cieca e vorace. Fu tramortita dal dolore nell’apprendere la verità: il Caino non avrebbe mai lasciato sua moglie per lei (né lei se lo era mai augurato) e non volle mai saperne della loro bambina. La donna combatté contro tutta la sua famiglia che non voleva portasse a termine la gravidanza. Sebbene fosse già matura, era considerato un disonore divenire madre da nubile. Tipico bigottismo di provincia anni Cinquanta. Crebbe la pargola con tutto l’amore di cui fu capace, con grandi sacrifici, una dedizione totale. Erano solo loro due, una madre e una figlia con un legame indissolubile, si tennero per mano tutta la vita.

Col tempo, Lia divenne il tesoro della famiglia. La nonna che in principio l’aveva ripudiata in nome di chissà quali assurdi valori, finì per amare sopra ogni cosa la nipotina che portava il suo stesso nome. La vecchia bastarda campò cent’anni. Lia l’avrebbe ricordata sempre per la sua uscita di scena. Al suo capezzale, mentre giaceva inerme e ormai prossima alla fine nel letto di morte, circondata da parenti e mezzo paese – era un’autorità nel quartiere –, la decrepita bizzoca sollevò il capo, si mise seduta e prese a cantare a squarciagola la canzone che il suo defunto marito, allora solo un corteggiatore zelante, le dedicò sotto al balcone di casa per chiedere la sua mano. Terminata la performance, la nonnina salutò tutti e si congedò dalla vita con il suo sorriso più bello. Tutti risero divertiti per “quel” film dai titoli di coda con la colonna sonora dell’amor perduto.

Lia non conosceva il suo vero papà, sparì nel nulla e non la cercò mai.  Apprese il suo nome una volta che ascoltò la madre parlarne con un’amica. La donna piangeva, il ricordo di quell’uomo crudele che l’aveva sedotta, illusa e abbandonata, le bruciava nel petto come una ferita sanguinante, volle cancellarlo, come se non fosse mai esistito e così fece. Da quel giorno Lia non sentì mai più pronunciare il nome di suo padre e non ebbe mai il coraggio di chiedere di lui, non voleva ferirla.

Lia aveva sei anni quando Pasquale entrò nella loro vita. Era un uomo bellissimo, alto e con un fisico statuario, sembrava un attore americano. Era vedovo, molto più vecchio di sua madre. Lo odiava. Era abituata ad averla tutta per sé, l’idea di doverla condividere con quel tizio venuto da chissà dove la faceva imbizzarrire come un mustang selvaggio. Pasquale sposò la donna dopo un lungo corteggiamento, la vera fatica fu abbattere il muro di diffidenza della piccola canaglia. Ogni sera le portava un regalino per farsi dare un bacino e per convincerla a chiamarlo papà.  La bimba prendeva la sua monetina e in cambio offriva il “giudaico” osculo, dopodiché gli sferrava un affettuoso calcetto nello stinco e gli sussurrava “grazie papà” e poi spariva nella sua stanza con il riscosso dazio. L’estorsione andò avanti qualche mese, fino a quando l’uomo si stufò e le disse seccamente che poteva chiamarlo come le pareva o anche non chiamarlo affatto, se ne sarebbe fatto una ragione, quella ridicola tassa andava abolita. Lia fu colpita dall’ardire del vecchio… in fondo era un uomo simpatico e amava sua madre, l’amava davvero.  Fine dei ricatti, da quel giorno lo avrebbe chiamato papà e gli avrebbe voluto bene come se lo fosse davvero. Erano finalmente una famiglia. Pasquale avrebbe voluto adottarla, Lia non lo considerava necessario, volle mantenere a tutti i costi il cognome di sua madre, quasi fosse un tributo alla fierezza e al coraggio che aveva dimostrato quella giovane donna, che sfidò il biasimo di tutti, affrontando le difficoltà completamente da sola.

Era da sempre una ragazzina intelligente, solare, con uno spirito sagace e accattivante, una sadica provocatrice. Il paese in cui era nata era veramente troppo angusto per lei. Se ne andò giovanissima nella grande città a cercar fortuna, o almeno la sua strada. Trovò l’amore. Si sposò giovanissima, era cresciuta senza fratelli o sorelle e sognava di avere una famiglia numerosa. Ebbe quattro figli, tre maschi bellissimi, un po’ stronzi come lei, e una bimba arrivata dopo tanti anni, quando ormai non ci sperava più, il suo piccolo gioiello. Li considerava la propria opera d’arte, avrebbe sacrificato qualsiasi cosa per loro, anche la sua stessa felicità.

Dei sogni di bambina, non rimase che il ricordo. Le sarebbe piaciuto studiare medicina, viaggiare, essere indipendente. Si era innamorata troppo presto. Lia era così… istintiva, ingenua, fuori controllo. Non volle aspettare. Non si pentì mai della sua scelta, ne era orgogliosa…  votò la sua esistenza ai figli, dimenticandosi di se stessa. Non fu mai pienamente soddisfatta, veramente felice.  I suoi occhi erano velati da una sfuggente malinconia, la consapevolezza che esistesse tutto un universo di possibilità che non avrebbe mai esplorato. Lei poteva altro.

Suo marito fu l’unico uomo della sua vita. Erano diversi, troppo diversi. Lei prepotente e superba, nevrotica, con un entusiasmo incontenibile, perennemente sopra le righe, logorroica e dinamica; lui un uomo paziente, un po’ noioso, vagamente indolente, pressoché monosillabico. Lia soffrì quel carattere passivo e freddo, provò a contagiarlo con la sua vitalità sanguigna ma non poté cambiarne la natura flemmatica. Rimase stoicamente impassibile, come una mummia egizia, nonostante quella donna fosse uno tsunami inarrestabile. Desiderava una passione travolgente, una complicità profonda…  le rimase in gola un’arsura che mai poté temperare. Il loro amore era tiepido, un sole che illumina ma non riscalda…

Era forte, una vera leonessa. La sua vita fu un campo di battaglia. Vinse sempre. Quelle come lei non perderanno mai. Nulla poteva abbatterla, nulla poteva spegnere il suo meraviglioso sorriso. Disse addio al suo papà, ormai stanco di vivere, quell’uomo non le fece mai sentire la nostalgia del suo genitore naturale e lei lo amò e se ne prese cura con affetto puro e incondizionato, fino alla fine. Affrontò la malattia della madre con un coraggio che non sapeva di avere, non poté regalarle l’immortalità e dovette lasciar andare la sua eroina. I suoi genitori se ne andarono a pochi mesi di distanza. Non potevano stare l’uno senza l’altra, nemmeno all’altro mondo.

Era vivace, dolce, maniacale, estremamente positiva. Era odiosa quando diventava aggressiva ma sapeva mostrarsi generosa e gentile. Una madre straordinaria. Adorava i suoi figli. Non fu semplice avere a che fare con tre maschi, ma era cazzuta e gestì le loro intemperanze col piglio di un colonnello. Li rese uomini di spessore, a volte la odiarono per il suo carattere complicato e indomito… dietro quella scorza dura come una roccia, avrebbero trovato sempre la carezza del suo animo sensibile. Aveva un debole per la piccola, la sua pupilla… forse questo non glielo avrebbero mai perdonato. Quella bambina era tutto per lei. La sua migliore amica, una confidente, un’avversaria leale, era se stessa che si guardava allo specchio. Era se stessa e basta.

La idolatrava, come una divinità. Le insegnò a cavarsela da sola, era sempre un passo dietro di lei, l’avrebbe aiutata a superare ogni difficoltà se fosse stato necessario, senza mai prevaricarla, sostenendo le sue scelte, anche quelle che avrebbe faticato a comprendere, scuotendola dalla sua timidezza, incoraggiandola ad oltrepassare i propri limiti. Quella piccola donna avrebbe dovuto realizzare tutti i suoi sogni, anche quelli a cui aveva rinunciato negli anni. Doveva sbranarsela la vita, non aspettava altro.

Quando si ammalò di un male terribile e silenzioso, ebbe paura di non farcela, ma combatté con tutte le sue forze e si rimise in piedi ancora una volta, come sempre. Non sarebbe crollata mai, era troppo figa, di una potenza infinita e sconosciuta. Avrebbero dovuto tagliarle la testa per finirla. Era una fottuta creatura immortale.

Lia è ancora bellissima. Gli anni sono trascorsi inclementi, veloci, ma senza alterare la perfezione del suo volto e lo splendore della sua pelle candida. È una creatura eterea, una stronza senza tempo.

Lia è luce che fulmina, entusiasmo dilagante, allegria che riempie e dilata lo spazio. Lia è fiamma che arde senza mai esaurirsi, è il vento tra i capelli d’estate che ti rigenera e ristora.

Mi ha insegnato tutto… A sognare come un’eterna bambina e ad essere concreta di fronte agli ostacoli, a stringere i denti e contare solo su me stessa… Anche quando mi sembrava tutto perso era lì, accanto a me, a ricordarmi che c’è sempre una ragione per sorridere, sperare, combattere. Mi ha donato le sue consapevolezze, la sua certezza che bisogna saper amare senza aspettarsi nulla in cambio, e soffrire senza smettere di sognare ancora, e ripartire da quel punto, ancora più forti di prima. Mi ha mostrato la bellezza del perdono e dell’umiltà, che ti rende superiore al tuo avversario. Mi ha detto di offrire sempre una seconda possibilità ma di non permettere a nessuno di calpestarmi. Mi ha dato il buon esempio con i suoi difetti. Non sapeva chiedere scusa, il suo orgoglio smisurato mi ha sempre ricordato il valore di saper ammettere i propri errori. Era un paradosso, il Bene e il Male che si schermiscono vicendevolmente.

Mi ha indicato la via quando mi sono smarrita. E anche lì, nel buio più profondo, non ho avuto paura, sentivo la sua mano sulla mia spalla, non sarei mai stata sola.  Mi ha fatto incazzare spesso e  l’ho detestata le volte in cui mi ha sfidata, mettendomi di fronte ai miei sbagli. Ora so che lo ha fatto per costringermi a tirar fuori il mio mondo interiore che solo lei conosce, solo lei comprende, perché tutti sapessero quanto sono speciale.

Ha creduto in me prima di chiunque altro, quando neppure io sapevo di valere.  Nei suoi occhi ho visto la soddisfazione, la stima, il senso di riscatto. Io sono quello che lei avrebbe voluto essere.

Farò l’Impossibile, quel che mi serve, mi prenderò tutto, è per lei, le regalerò la gioia che l’è mancata, quel guizzo di vita che aspetta da sempre. Le devo ogni cosa, quello che sono, quello che diventerò. Io sono sempre stata il suo slancio vitale, la sua ricerca della perfezione e dell’Ideale, la sua anima divenuta ali immani. Il suo lungo volo.

La odierò sempre, l’adorerò ancora di più, perché il nostro amore è potente, inarrestabile, fa male, ci piace che faccia male. È nostalgia, trepidazione, struggimento, è attesa. È desiderio e atto di un sentimento primigenio e invincibile. È l’amore che esplode e illumina senza fine.

Lia, mia madre.
 

Ilaria Di Leva

 


 


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