Racconti brevi

Pensavo fosse orrore, e invece era una bufala

 
 

Si incontravano una volta all’anno in un ex convento abbandonato nelle campagne laziali. Era un luogo misterioso, lugubre, soprattutto macabro, un luogo di confine.

Arrivai che era tardo pomeriggio. Era la fine di maggio, la primavera esplodeva rigogliosa. Eppure quel giorno l’aria mi sembrava gelida. Riuscii a farmi strada tra i rovi secchi e individuai l’unico punto di accesso, una finestra in alto. Mi arrampicai su un alberello che usai come una sorta di scala e mi catapultai, non senza fatica, all’interno tramite quel varco. Ripresi fiato e mi scrollai della polvere che mi era caduta addosso, respirai l’aria greve e mi guardai intorno. Un brivido mi percorse la schiena, non sapevo cosa aspettarmi. Il cortile interno, quasi inghiottito da piante rampicanti, era circondato da colonne stanche e instabili. Su un lato troneggiavano due carri funebri ottocenteschi, il legno era marcio ma vi pendevano ancora i pennacchi, simbolo dell’antica magnificenza… di quel lupanare. Poco distante c’era un cimitero. Più in là, due statue di santi che sembrarono accogliermi ed ammonirmi, allo stesso tempo. I pipistrelli volavano basso e temetti seriamente potessero attaccarmi, sentivo degli strani rumori, era lo squittire di topi o forse erano nutrie. Ricordai di aver letto, da qualche parte, che i ratti nell’iconografia cristiana rappresentassero l’incarnazione del potere distruttivo e, quindi, la personificazione di Satana. Trasalii a quel pensiero e provai un fastidiosissimo senso di nausea. Nel mentre mi chiedevo cosa cavolo ci facessi in quel posto maledetto mi voltai e intravidi una rampa di scale. Pensai saggiamente di andarmene, ma prevalse un’irragionevole curiosità. Salii velocemente, come per scappare dalle sinistre presenze che avvertivo intorno… Sono sempre stata una cagasotto, l’atmosfera da film horror mi inquietava, ma ero animata da un’adrenalina sconosciuta fino a quel momento, e decisi di sfidare le mie fobie. Percorsi tutto il piano superiore ma non vi trovai nulla. Ritornai di sotto, feci il giro dell’edificio e mi imbattei in un portale con un enorme arco a sesto acuto. Ero arrivata, quella doveva essere la sala capitolare. Allertato dal rumore dei miei passi, mi venne incontro “Lui”.

Ci conoscemmo pochi mesi prima, per una strana coincidenza… ma forse non si trattò di un caso. Quel tipo mi studiava da un po’. Entrò nella mia vita improvvisamente, come apparso dal nulla, e s’insinuò nella mia quotidianità con le sembianze di un serpente strisciante, silenzioso, sibillino. Sapeva tutto di me, anche quello che non gli raccontai mai. Parlare con lui mi atterriva e mi eccitava, non potevo mentirgli, sapeva leggere nei miei silenzi. Colse nei miei occhi un universo impervio e inesplorato. Lo odiavo. Di lui non sapevo quasi niente, solo che era stato un missionario in Africa e che era diventato scrittore per passione. Volle che scrivessi per lui, era convinto che avessi una dote sepolta, da qualche parte, nel mio animo inquieto. Credevo fosse solo un ebete acculturatissimo, aveva la faccia di un cretino e probabilmente lo era, ma lo assecondai. Aveva uno strano potere su di me, mi coinvolgeva con il suo egocentrismo, era un megalomane e mi convinse di essere una creatura soprannaturale, proprio come lui. Scoprii di essere superiore, oltre ogni mia aspettativa. Aveva ragione, tenevo nascosto a me stessa una grande potenza, all’inizio ne ebbi timore, poi mi abbandonai al suo impeto travolgente e ne fui sconvolta. Costui fu la mia prima vittima. Intuii che il suo interesse per me celava qualcosa di più grande, non osavo chiederglielo, sentivo che, quando avesse imparato a fidarsi di me, si sarebbe svelato da solo. Accadde prima del previsto: era membro di un circolo segreto e ristrettissimo di “scrittori”, va beh… cosi credevano, provenienti da ogni parte d’Italia, animato dal desiderio di diffondere e coltivare la letteratura dell’orrore. Quel vecchio convento, ormai un rudere, era il luogo deputato alle loro riunioni. Si chiamavano “Gli scrittori del Male”. Erano particolarmente selettivi, raramente lasciavano entrare nuovi membri, ma Lui aveva deciso, dovevo essere una di loro e li convinse ad ammettermi. Non fu impresa facile, era testardo, una testa di cazzo, e volle aggiungermi, ignorando le perplessità degli altri. Cosa c’entrassi io con quel manipolo di schizzati non mi era chiaro, eppure nutrivo una curiosità smodata di scoprirlo. Non avevo mai scritto niente che potesse avvicinarsi al genere letterario che loro amavano, ma Lui insisteva: “porterai nuova linfa”. Ossia chiacchiere…

Accettai di buon grado e partii per raggiungere la destinazione del raduno. Mi venne incontro con un sorriso diabolico e mi abbracciò come se fossi una sua creatura, quasi paterno. Ero agitata, mi guardai le mani tremanti, erano diventate viola. Ormai ero lì, non potevo scappare e decisi di fidarmi. Entrammo nella grande sala, li vidi tutti seduti ad un tavolo, avvinazzati, e comunque ebbri. Erano pietosi. Mi stavano aspettando e mi guardarono come si mira cosa meravigliosa.  Mi ipnotizzarono. Il primo a salutarmi fu un giovane con la barba. Si appressò a me, simulò un leggero inchino col capo e mi baciò cavallerescamente la mano. “Buonasera signorina, sono lieto di conoscerla di persona, il nostro amico ci ha raccontato cose stupefacenti di Lei. Suvvia, non stia lì impalata, venga tra noialtri” mi disse con la sua vocina impostata e incomprensibile. Il piccolo principe era molto giovane, il suo manierismo mi imbarazzò oltremodo, era buffo, quasi grottesco. Gli sussurrai che poteva darmi del tu, mi rispose che non era suo costume.  “Iniziamo bene” pensai, e questo è solo il primo. Odiavo essere al centro dell’attenzione, sentivo i loro occhi puntati su di me, mi voltai per cercare lo sguardo rassicurante di Lui, ed era lì a coprirmi le spalle, tirai un sospiro di sollievo, non poteva accadermi nulla di male. In mezzo agli altri troneggiava cotal Ino, diminuitivo di un nome ancora più ridicolo. La mia guida mi aveva accennato qualcosa di lui, erano grandi amici. Stava fumando il suo sigaro, con un’aria sorniona e beffarda, come se fosse un capo, ma manco lui ci credeva, quando mi avvicinai per presentarmi. Mi squadrò dalla testa ai piedi e mi disse, stringendomi energicamente la mano, con un accento da mediocre imperatore romano “quindi te saresti ‘a tipa che scrive quella robba strappalacrime, ai limiti der vomitevole? Sappi che piuttosto che leggere i tuoi racconti preferirei prendermi a martellate sui cojoni. Piacere, Ino”. Rimasi senza fiato. In pratica, secondo lui, scrivevo di merda. La mia guida sussurrò al mio orecchio di non badare troppo alle sue parole, era un gran burlone e amava prendere in giro tutti. Forse. O forse no.

La voce di un’oca giuliva mi fece sobbalzare. Era una nana, svampita e arcigna. “ Ziao, non dar retta a questo vecchio pazzo, anche a me sta sul cazzo. Seguimi, ti presento gli altri” sogghignò con il suo viso angelico. “Lei è la buona, quell’altra è lievemente ipocondriaca, Lulù è il nostro contabile, il più serio, però si crede nordico ma è di Agrigento. I restanti sono già ubriachi, li conoscerai dopo. Io sono quella “gne gne” che scrive romanzetti leggeri e stomachevoli come i tuoi. A proposito, che bello smalto che hai, dopo mi dirai qual è il tuo segreto, non hai neppure una zampa di gallina! Ah, quella laggiù, lei è… beh, lo capirai da sola…”. Costei era opportuna come un tir contromano in autostrada. Un male incurabile. L’arpia mi guardava con fare sospettoso e disgustato, evidentemente contrariata dalla mia presenza.

Tutto sommato, una bella gabbia di matti. Ed io che pensavo di essere strana.

Mancava solo il presidente e fondatore del circolo. Arrivò per ultimo. Aveva un’aria pacata, la flemma di chi ti studia e sa già cosa ne farà di te. Un manipolatore onesto. Mi spiegò che la mia presenza, quel giorno, era un evento assoluto. Fino a quel momento nessuno aveva mai vagliato l’ipotesi di accogliere nuovi membri ma Lui aveva insistito perché mi conoscessero, per valutare, poi, se fossi stata all’altezza di diventare un’affiliata. Avrei dovuto dimostrare la mia lealtà. Io mi prefigurai già la scena dei tagli all’avambraccio e la congiunzione dei polsi da cui sgorga il liquido vermiglio tra compare di sangue e nuovo fidelizzato. La classica investitura di un clan camorristico. Gesù, erano convinti di essere una setta, o qualcosa del genere. Avrebbero dovuto farmi paura e invece mi suscitarono il sorriso, anzi un ghigno.

Dopo le presentazioni di rito, bevemmo del buon vino rosso e la loro compagnia mi parve quasi piacevole. Nonostante gli effetti vasodilatatori e rilassanti dell’alcol, ero ancora a disagio. Mi osservavano, volevano qualcosa da me, iniziai ad avere paura sul serio.

Ad un certo punto, Ino si alzò in piedi e propose di brindare alla mia iniziazione. Era un uomo quasi carismatico, se avessi conquistato lui li avrei avuti tutti in pugno. “Tu sai scrivere, ragazza, il tuo stile è sublime, ma sei troppo eterea, impalpabile, divina. Io aborro il tuo genere, noi tutti lo detestiamo, ma riconosciamo il tuo potenziale. Amiamo il sangue, il dolore è la nostra indole, il terrore il nostro scopo. Dimostraci che Lui ha ragione, che sei davvero rara, togli quelle schifosissime ali da unicorno sognante e trasformati nella nostra Dama Nera. Diventerai la punta di diamante, faremo di te un mito planetario, anzi… galattico! Oggi scriverai la tua prima storia dell’orrore, intingerai la penna nel sangue di uno di noi e diverrai immortale”. Non sapevo se ridere o piangere, questo era scemo, nel dubbio mi voltai verso Lui e domandai “Ino sta scherzando?”

“No, è tutto vero. Gli scrittori del Male esistono da più di due secoli, purtroppo la genialità si sta estinguendo, siamo in una fase stagnante, mortalmente noiosa e piatta. Poi ho trovato te, sei ciò che stavamo cercando da tempo. Sei scintilla e sarai incendio immane. Ci ridarai nuovo vigore e ci condurrai nei profondi abissi della Terra, che sono la nostra vetta sotterranea. Il nostro è un gruppo di Eletti. Siamo undici, il numero Maestro, l’archetipo del Genio, il simbolo della sfida. Ed è quello che tu ti appresti a fare: supererai le tue paure, abbandonerai il tuo vecchio percorso e sarai la nostra Musa. Per farlo dovrai uccidere uno di noi, il nostro numero non può cambiare, la regola è questa da sempre. Sarai tu a decidere chi dovrà sacrificarsi in nome del supremo amore per la letteratura dell’orrore e io ti guiderò, come ho sempre fatto sinora”.

I dubbi erano svaniti. Erano una setta di psicopatici. Erano dementi. Mi si prospettavano solo due soluzioni: scappare velocemente, sperando che qualcuno di normale nei paraggi, udendo le mie urla disperate, venisse in mio soccorso; oppure ringraziare sentitamente tutti per il piacevole tempo di pura follia e tanti saluti, me ne sarei tornata ai miei romanzetti rosa. Che poi, l’horror, mi faceva pure schifo, vallo a spiegare a quegli zombie travestiti da templari.

Iniziai a sentire la testa girare, tremavo tutta, sentii la fronte imperlata di sudore. Poi il buio. Forse persi conoscenza, dovevano avermi drogata. Quando riaprii gli occhi ero distesa per terra; non mi parvero preoccupati, anzi, piuttosto soddisfatti. Feci per alzarmi, ancora stordita e confusa. Quello che vidi davanti a me, mi fece venir la voglia di collassare nuovamente.

Si erano schierati tutti di fronte a me in semicerchio, vestiti di tuniche nere, ognuno con una candela in mano, nella sala ormai oscurata dalle tenebre della notte. Come cavolo mi ero ficcata in un guaio del genere? Speravo di sognare ma quell’incubo non voleva saperne di cessare. Il presidente della scellerata comitiva mi porse un pugnale e mi intimò di adempiere alla mia missione, non avrei potuto tirarmi indietro, io ero una “Predestinata”. Non ero in me, lo ascoltai farneticare quelle assurdità ma non avevo la forza di reagire o ribellarmi, ero come in trance. Con una limitata mente annebbiata, ossia la solita, afferrai il coltello e iniziai a studiare la vittima. Il capo fantoccio o presidente, dall’accento noioso e pugliese, era da escludersi, non potevo minare i vertici; per lo stesso motivo considerai anche Ino come intoccabile e, poi, in fondo, quel vecchio goffo e bastardo, coi baffetti da scarso attore ottocentesco di un teatro qualsiasi del Tufello era persino simpatico. Il cavaliere babbeo continuava a darmi del lei e solo per questo avrebbe meritato l’oltretomba, ma era il più giovane e volli risparmiarlo. Forse avrei dovuto ammazzare il mio “amico”, quel dannato mostro mi aveva trascinato nel suo incubo… Era troppo astuto, sapeva che non l’avrei fatto, per uscire dalla maldestra combriccola, tragicomica e demenziale, avevo bisogno di lui, mi serviva vivo. Non avevo nessun motivo per fare fuori uno di loro. Procedetti per esclusione. Avrei scannato la megera. Vestita di nero, pareva la Morte. Le mancava solo la falce. Mi aveva provocato tutto il tempo con la sua aria di superiorità, mi considerava una smorfiosa viziata e denigrò il mio modo di scrivere, sdegnosa e prepotente. In realtà era solo gelosa. Anche in quel momento mi guardava dritta negli occhi malefica come una “janara”. “Non ci riuscirai, sei solo una principessa delle fiabe, torna al tuo mondo incantato, cretina, non sarai mai una di noi”. Sentii una collera cieca e sconosciuta pervadere ogni fibra del mio corpo, una forza oscura traboccò fuori veemente e inarrestabile. La presi alle spalle, le tirai i capelli e con la mano destra le tagliai la gola e la scannai. Fu un attimo. “Cadde come cade corpo morto”. In pochi secondi il pavimento fu inondato del suo sangue. Gettai l’arma a terra e inorridii. Guardai Lui, era fiero di me, erano tutti estremamente soddisfatti. Credevo fossero sollevati di essere scampati al truce sacrificio. Invece no. Erano semplicemente felici di essersi liberati di lei. Non poteva essere uno di noi a farlo, serviva un’entità superiore e immacolata a compiere il sacrificio, una vergine dei Quartieri Spagnoli di Napoli. “Sapevo che avresti ucciso lei, sei un animo puro, non avresti potuto sopravvivere al suo veleno mortale” mi disse, abbracciandomi. Mi accarezzò il volto con le mani sudice. La mia faccia divenne una maschera di sangue.

Ero sconvolta. Mi avevano usata per raggiungere il loro atroce obiettivo…

Eccitato dall’odore opprimente di sangue e morte, Ino lanciò la sua macabra proposta “Raga’, sapete che ve dico? Vado a prepara’ la brace, magnamosela” e tutti esultarono, affamati. E così, sordidi e immorali, l’arrostimmo su uno spiedo, girandola lentamente al fuoco. Ci cibammo di quelle carni. Dovemmo scolarci una bottiglia di grappa per digerirle.

La mattina seguente mi risvegliai a casa mia. Non so come vi fossi arrivata, non ricordo più nulla di ciò che accadde dopo il sadico banchetto. Ero sollevata, doveva essersi trattato del classico incubo postindigestione da polpettone materno, che avrebbe provocato allucinazioni nefaste pure ad un monaco benedettino. Mi guardai le mani, avevo ancora tracce di sangue sotto le unghie smaltate.

Non seppi più nulla di loro, né ebbi mai notizie di Lui… sparito nel nulla, come se non fosse mai esistito, o forse era sprofondato nelle viscere della terra, accanto a Lucifero. Provai a fare delle ricerche, ma non rintracciai il minimo indizio dell’esistenza di quel branco di alienati.

Tempo fa, ho trovato un manoscritto nella cassetta della posta. Portava la sua firma, quella del diavolo missionario. Il titolo era “La Dama Nera. Genesi del Male”. Ora so perché mi aveva coinvolto, quella notte. Lo splendido delitto, reale o immaginario che fosse, ci aveva legati per sempre, lo avrei rincontrato nelle terre deserte e avvolte dalle fiamme dell’Ade e sarei stata la sua ancella fedele. Ero una sua creatura, l’unicorno sognante trasfigurata in una messaggera di morte.

So soltanto che da quel momento tornai a scrivere i miei insulsi romanzetti fiabeschi, né pubblicai mai quel suo romanzo dell’orrore.

Fumo il sigaro in onore del “Paternostro”, bevo napalm a colazione, e non sono diventata vegana. Tutto il resto… è soia.

 

Ilaria Di Leva

 


 


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