Racconti brevi

La creatura

 

Io ormai ero avulso da quel passato, da quei sorrisi, da quella vita, persino dai suoi tormenti. Ero sepolto in una miniera. Vivevo come se non fosse mai cambiato niente, eppure laggiù, da qualche parte, era mutato tutto. Quel che io conoscevo era solamente una rilettura fittizia di pagine che si lacerano, spappolano e infine si consumano da sole, divenendo cenere, scomparendo come pulviscolo nell’aria. Tutto quello che amammo non era mai nato, la vita stessa era scomparsa.

Un distacco volontario da un giardino fiorito, forse perché ne avrei sofferto troppo. È sempre doloroso lasciare andare e seppellire ciò che si ama… a volte, è l’unica scelta possibile.

Ogni animo umano è vulnerabile, come uno scrigno di cristallo. Pure quello di chi si crede invincibile. Basta un qualsiasi evento tremendo, oppure persino amabile, che raggiunga la rabbia e i nascosti dolori… e smetti di essere quello che sei. Dura solo un attimo, poi ritrovi la forza per sopravvivere, abbandoni l’istinto e viene fuori incandescente quello che altri uomini e altri enti hanno costruito. Ridiventi ciò che avevano in mente. Ritorni a essere quello che saresti stato, ossia quello che la cavità più nascosta del tuo essere aveva frenato. L’esplosione di un monte.

Ero in un posto tetro, oscuro, ero solo, sperduto chissà dove. In un attimo pensai che fossi davvero senza scampo, disperato. Mi accovacciai, sentivo il silenzio dell’oscurità e del nulla. Per un attimo forse pensavo che avevo desiderio di riassaporare l’aria. Ed ecco che sgorgava la rabbia. Quasi impietosa. Poi un cazzo di animale mi morse e mi svegliai dal mio torpore. La malinconia e la tristezza sparirono, acchiappai il topo e l’uccisi. Mi “risvegliai”, cercando la via di fuga. Lassù, al di fuori della segreta c’era sempre un nuovo sole, o forse era una nuova luna.

A stento riuscivo a strisciare in quel cunicolo che mi avrebbe portato verso la libertà. Ma qualcosa ostacolava la risalita. Sentivo che le mie squame stridevano contro gli anfratti del tunnel. Alcune penne mi si staccarono, ma in un modo o nell’altro ce l’avrei fatta. Sarei stato in salvo e così volli. Mi trovai vivo e forte in mezzo ad alberi di alto fusto.

Era notte, la luce dell’oscurità non mi palesò subito ciò che mi circondava, ma l’aria riempiva i polmoni di un’ebbrezza di ossigeno che mi esaltava verso la vita.

D’un tratto vidi una creatura sola e indifesa su una specie di altura, seduta, immobile in un silenzio malinconico. Non volli atterrirla e non mi avvicinai. La guardai per diverse ore. Era bellissima, eterea come un sogno, tanto da pensare fosse irreale. Poi andò via.

Rimasi in quel bosco alla ricerca di cibo e acqua. Un ruscello fremeva a qualche centinaio di metri, lo udivo dal rumore di una probabile cascata che si infrangeva abbasso. Avrei potuto dissetarmi, e cibarmi dei frutti della foresta. E così feci.

Passarono diverse notti dal momento della mia fuoriuscita dal tunnel. La ragazza veniva sempre alla stessa ora, si fermava in quel luogo, puntualmente guardava la luna. Chissà perché, e allora ancora non lo capivo. Ogni tanto mi alzavo in volo e la seguivo dal cielo mentre faceva ritorno al suo villaggio. Forse volevo proteggerla nel suo cammino, sentivo che aveva bisogno di me… E io ero attratto da lei, quasi avesse un potere magnetico, era mistero, fascino, era dolore. Poi mi abbassavo in picchiata al suolo e le mie ali si muovevano verso la via del ritorno. Tornavo a nascondermi nella spelonca da cui ero scappato, perseguitato dall’immagine di lei. Mi rese insonne.

Un giorno decisi di rivelarle la mia presenza, non sarebbe stata pronta, ne ero consapevole, ma non potei evitarlo, desideravo ardentemente poterla guardare negli occhi terrificanti, nutrirmi della sua infinita bellezza. Si spaventò, il suo corpo vibrò per l’inattesa mia comparsa, ma ben presto si calmò, fidandosi di me e della mia orripilanza. Io ero quello che gli uomini chiamano creatura, un mostro, ero un qualsiasi drago orrendo.

Tutte le notti ci incontrammo sempre su quel colle, eravamo due universi di solitudine. Io pian piano riportai alla luce le sue qualità migliori, ciò che aveva sempre negato al mondo. Ritornò così a scrivere, sviscerando passioni ed emozioni, ritrovando per la prima volta il gusto nella vita, che forse un tempo la deliziava e l’aggraziava. Parlammo tantissimo, la sua voce era calda, era soave. Entrai nel suo animo, la illuminai, risvegliai quel che di portentoso c’era nelle sue profondità immense e celate. E lei mi soggiogò con i suoi incantesimi.

Quella sera sarebbe stata l’ultima insieme. L’abbracciai con la mia zampa. Fu una metamorfosi. Mi compenetrai con lei, le avvolsi l’animo e la inebriai. La strega ridivenne donna, esplose nel suo fiorire. Ritornò fuoco e tempesta, ridivenne ciò che era sempre stata. L’attimo che restituisce il brivido, scacchiando e annullando l’atrocità delle stagioni andate via. Il fascino malinconico e incommensurabile, ma anche gioioso e splendente. Era il suo destino. Ora aveva di nuovo i suoi due occhi oscuri che emanavano splendore. Da allora non si arrese più e continuò la sua vita tra nuovi incanti e nuovi orizzonti. Era un sogno, il mio sogno più magico, ossia l’interpretazione più sublime della realtà.

Ero stato la sua palingenesi. Sapevo che ormai avrebbe lottato benissimo da sola, il mondo era un campo di battaglia, era la sua guerra, e lei l’avrebbe combattuta e vinta. E così avvenne.

Decisi di partire, un salire e ridiscendere sempre da qualsiasi tempo, luogo, streghe e sirene, boschi e giardini. Amavo il cielo e la lontananza. Ma ero il Fato e non avevo mete.

Lei pianse, si disperò, quasi la delusi, non seppe mai quanto ne avessi sofferto anch’io. Non potevo restare, l’avrei amata e sarei morto di quel sentimento violento come un uragano, perché lei era puro incanto, pura follia, calamità senza scampo. Non fu una fine, soltanto un nuovo inizio.

Una notte mi vide lassù, accanto alla sua luna, mi guardò e mi sorrise.

Non avrei mai smesso di vegliare su di lei. Era Ivory dagli occhi terrificanti. Ma solo io sapevo, che le sue grandi iridi erano arcobaleni. Era una Draga.
 

Joe Oberhausen-Valdez

 


 


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