cronache di capocchia

Pied-à-terre – nona parte.
Tratto da Psycho Zombie Horror Show vol. II

di Nicola Capocchia*

 

 

L’avvoltoio appollaiato sul balcone cancellò “spontaneamente” il filmato dell’aggressione, era Damiano Paglietta, pseudo giornalista da strapazzo con l’hobby del viscidume, servizievole verso qualsiasi governante in odore di avanzamento di carriera. Ogni giorno, il subdolo collega, doveva compiere la scalata verso la piramide dell’informazione, scivolosi scalini ricolmi di dissenteria e come ogni ingranaggio oliato dalla saliva dei lecchini di qualsiasi apparato politico, si rischiava di non farcela.

«Damiano, non sei cambiato affatto, sempre alla ricerca di idiozie, non oso immaginare la tua lingua, sarà piena di piaghe, non ti stanchi mai».

Non rispose, mi mostrò, respirando con timore l’odore di adrenalina che emanavo, l’atto della cancellazione del video. Gli strappai il cellulare dalle mani, controllai ogni anfratto, ogni file, ogni cartella e riconsegnai il telefonino posizionandoglielo nella patta dei pantaloni.

Mentre svaporavo la mia rabbiosa ed inusuale violenza, guardandomi l’ex dito, ormai un divenuto un salsicciotto, pensai a tutti i sacrifici, anche anatomici, per essere arrivato al “rango” di giornalista della Gazzetta del Popolo e guardai Damiano dritto negli occhi e ricordai… Sin da bambino non aveva mai mostrato una spiccata predisposizione al lavoro, uno stakanovista dell’ozio, sempre attento a dare lustro a banali ed inutili storie di pettegolezzi. Crescendo si era adagiato sulla sua unica perspicacia, la ricerca delle dicerie paesane, adatte solo per rimpinzare le fauci di accaniti lettori di cronaca rosa. L’occasione per filmare un aggressione, era per lui come una succulenta stecca di gelato da lanciare ai golosi lettori del suo quotidiano on line, denominato “Novità”, sempre e solo spasmodicamente attento ai gossip del cazzo.

Mi allontanai con disgusto e ritornai in strada, Carlo, chino sul prato, stava raccogliendo dei fiori di asperula. Nella medicina popolare era impiegata, sotto forma di infuso, come rimedio per nervosismo, emicrania e addirittura come antinfiammatorio. Mi avvicinai con calma, senza provocare in lui reazioni di spavento e gli dissi:

«Fammi fare un tiro và!»

Si voltò come una ragazza che ha appena ricevuto una proposta di matrimonio, sorrise, mi guardò negli occhi, allungò il fiore e rispose:

«Grazie Nicola, mi accompagneresti a casa, ho il timore che vogliano rapirmi gli ufo, i casi di abduction sono in netto aumento anche in Italia».

Non c’era medicina per Carlo. Respirai intensamente, gli adagiai un braccio sulla spalla e sorridendo gli promisi che l’avrei accompagnato ma solo dopo aver saputo l’indirizzo.

Ci inerpicammo per una salita, una strada di campagna, ancora attraversata dagli ape 50 cc, i tre ruote che emanavano sbuffi di fumi maleodoranti ad ogni cambio di marcia. Il percorso era inevitabilmente segnato al centro. Ai lati del passaggio della ruota principale riuscivano a crescere erbe spontanee. Era incredibile come i semi, incastrati nei solchi dei pneumatici, riuscissero a rivitalizzarsi in un minestrone di svariate erbe colorate. I sivoni, le cicorielle selvatiche, la rucola, ne sarebbe uscita una bella minestra di zuppa da accompagnare con un po’ di lenticchie. La gioia di mio padre, e finalmente avrei avuto un momento di attenzione. Non raccolsi e proseguì il cammino. A sinistra della strada intravidi uno spiazzale, piatto, senza erbacce. Quello era un luogo magico, lì da bambini giocavamo a calcio, a rugby, a baseball, addirittura tentammo di improvvisare una partita di tennis. In estate dopo ore e ore di giochi, al crepuscolo, accendevamo il fuoco, ancestrale momento di ricongiunzione interiore con la terra. Nei fuochi per alimentarli ci infilavamo la plastica, di qualsiasi colore, e ci divertivamo a vedere la miscellanea di tinture che sciogliendo si mixavano.

 

«Carlo ti ricordi…»

Carlo sembrava come un pettirosso in gabbia, racchiuso nella morsa asfissiante della prigione delle sue paure e delusioni. Almeno il pettirosso sfoggiava il suo canto, Carlo no, serrato nella sua tomba interiore. Neanche Francesca, la sua ex, conservava il chiavistello della guarigione. Ormai era andato, perso in un universo parallelo di paranoie e allucinazioni. Eppure Carlo sino ai diciotto anni aveva dimostrato di poter diventare un calciatore professionista. Ricordai quando scrissi uno dei miei primi articoli sportivi, avevo sedici anni e Carlo era una promessa del calcio paesano.

Era il 24 Maggio del 1988, lo stadio Comunale di Sargassi si popolò di appassionati, tifosi e curiosi. Mister Fittipaldi stava per compiere un’impresa storica, vincere un campionato di categoria. Il Presidente insieme con lo staff dell’Associazione sportivo dilettantistica Sargassi stavano per realizzare un’impresa storica, salire di divisione e ridare lustro e visibilità al calcio nostrano.

Alle ore 18 lo stadio si illuminò di luce artificiale, nuvoloni carichi di pioggia, oscurarono il cielo, la temperatura calò bruscamente, i fuochi pirotecnici già pronti per scoppiettare rischiarono di inumidirsi. Nonostante l’impegno e la buona lena degli atleti sargassiani, la porta degli avversari sembrava stregata, il portiere rivale pareva un essere tentacolare che catturava palloni e spaventava gli attaccanti. Tempesta “moro” Francesco ci provò come un ossesso, Di Lauro “bomber” Michele, dopo un annata opaca, dimostrò la sua poliedrica predisposizione al gioco del calcio, Barile “speedy” Francesco tentò più volte di segnare, ma non colse i frutti del duro lavoro atletico.

In porta, Oresti “paratutto” Vito regalò sicurezza e brio alla forte retroguardia sargassiana. Il numero 1 tra l’altro compì una miracolosa parata su un contropiede avversario, risultato salvo ma esito bloccato, 0-0.

Nonostante l’ottima prestazione dei sargassiani, il risultato sembrava non volersi sbrogliare. L’impianto tecnico tattico di mister Fittipaldi era ineccepibile ed impeccabile: ottimo movimento di palla, tocchi di prima, pericolose triangolazioni. De Chirico “moleskin” Vincenzo era un piantagrane per gli avversari, non concesse nulla, il centrocampo era di sua proprietà, sovrastante. Carlo “grasso” Lo Vecchio salì sul palcoscenico e trascinò i sargassiani verso la porta avversaria, i suoi cross erano precisi, perfetti e morbidi, destro e sinistro non faceva differenza ma gli attaccanti purtroppo non concretizzavano. Sulla fascia destra dei sargassiani, Carlo, cominciò a macinare chilometri come un rullo compressore, aveva la finezza nei piedi, quella delicatezza che si trasforma in un veleno portentoso. Si cominciò a temere di non poter scardinare la porta avversaria, il pubblico rumoreggiava ma era soddisfatto del gioco dei rossoblù, anche un pareggio poteva bastare. Dopo aver provato di tutto, arrivò il gol. L’arbitro fischiò un calcio di punizione da trenta metri circa, si incaricò dell’esecuzione proprio Carlo il quale più volte in quel campionato regalò superbi gol con inimitabili e roboanti traiettorie. Carlo si apprestò al tiro, i tifosi dagli spalti erano pronti al grido del gol, falsi esperti di calcio strofinavano le mani ai ferri e altri buontemponi si toccavano i gemelli. In molti pensarono: Carlo tira forte, sarà un bolide o fuori o dentro, altri meditarono ad un tiro all’incrocio dei pali. Carlo invece stupì tutti e scoccò un tiro insidioso e preciso ma alquanto debole, una punizione che rimbalzò sullo scivoloso manto erboso, ingannando il portiere avversario. Successe il delirio. I sargassiani strinsero i denti, i tifosi li battevano, faceva freddo, il vento gelido e pungente, entrava nelle ossa. Tutti sugli spalti restarono sino al triplice fischio. Fu un trionfo, Carlo un eroe.

«Si pronto Direttore, mi dica, si comprendo ma sono in malattia, ho perso un dito…»

«Senta dottor Capocchia, si chiama così vero? Dopodomani mattina l’aspetto in ufficio, le dico la verità, del suo dito non me ne frega un cazzo, dopodomani mattina alle 8.00 precise, puntuale, la voglio di fronte a me, non si sieda perché subito dopo i dettagli dovrà partire»

«Direttore, la prego, mi capisca, sono in convalescenza, tra l’altro le ho anche inviato un valido certificato di malattia»

«Cartastraccia. Dopodomani Cagocchia, alle ore 8.00 nel mio ufficio».

Chiuse il telefono, un fulmine di cattiveria si impossessò di questo poetico momento.

Afferrai Carlo nervosamente sotto il braccio e affrettai l’andatura, dirigendomi verso casa sua. A pochi metri dall’ingresso di una villetta di campagna, sotto un porticato attorniato da calendule e girasoli, vasi di arnica e artiglio del diavolo, pensai a mio padre, ci sarebbe stato bene con la madre di Carlo. E la vidi lì sorridente che aspettava il ritorno del suo unico e amato figliolo.
 


 

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*Nicola Capocchia è giornalista della Gazzetta del Popolo, redattore del magazine ilovezombie.it

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