cronache di capocchia

Pied-à-terre – decima parte.
Tratto da Psycho Zombie Horror Show vol. II

di Nicola Capocchia*

 

 

La voce del Direttore della Gazzetta del Popolo mi graffiava ancora i gangli cerebrali, come un foglio di cartavetrata che strisciasse sulla carne viva del mio ex dito:

«Dopodomani Cagocchia, alle ore 8.00 nel mio ufficio».

Un loop insopportabile, prima o poi avrei lasciato quel postaccio da cronachista, non lo reggevo più. Quella minacciosa imposizione del Direttore però mi stuzzicava, professionalmente parlando non vedevo l’ora di ributtarmi nel lavoro, dito o non dito.

Salutai, con un affettuoso abbraccio, Carlo, dicendogli che presto sarei tornato per trascorrere una piacevole serata in sua compagnia. In realtà di gradevole c’era ben poco in lui. Rivolsi un baciamano con inchino alla mamma di Carlo e dissi:

«Buona sera signora, purtroppo devo scappare dai miei perché domani dovrò ripartire per un lavoro urgente…»

«Ti ho riconosciuto sai? Sei il figlio di Peppino, Nicola. Brava persona, un tesoro. Ma prego, accomodati almeno per un sorso del mio Cognac fatto in casa».

Come al solito, per non risultare maleducato, decisi di assecondare l’invito e mi accomodai nell’ingresso della casa di campagna della famiglia Lo Vecchio.

All’entrata sobbalzai facendo un salto all’indietro. Un orso bruno di circa due metri con la bocca spalancata, in piedi sugli arti posteriori, mi stava per squarciare la pelle con affilati artigli.

«Nicola! È imbalsamato, stai tranquillo».

Recuperando un certo savoir-faire risposi:

«Signora, e se fosse solo in letargo?».

La mamma di Carlo mi fece strada lungo un tetro corridoio, trofei di caccia, probabilmente appartenuti al padre di Carlo, campeggiavano sui muri, le ragnatele erano un supplemento d’orrore.

Daini, cervi, mufloni, cinghiali, appesi ai lati qua e là, facevano da spettatori muti. Entrando nella sala del soggiorno, la luce a colori di un pc poggiato su una scrivania trasmetteva un video su youtube, sembrava un training sulla tassidermia. Il pavimento invece era ricoperto di pregevoli tappeti persiani, incantevoli colori cominciarono a vellicare la mia coscienza, tranquillizzandomi.

La mamma di Carlo mi fece cenno di accomodarmi su una poltrona in vimini, proprio davanti ad un camino che, nonostante il clima mite ma minaccioso, scoppiettava con gran vampate di lingue di fuoco.

«Accomodati Nicola, adesso vado in cucina a prenderti il Cognac»

«Signora Lei è gentilissima ma non posso sostare più di qualche minuto…»

«Arrivo subito, Nicola. Non temere questo posto, qui puoi dormire sogni sereni».

Sentii poderosamente afferrarmi la spalla, sussultai, era Carlo che in un momento di lucidità affermò:

«Il lavoro debilita l’uomo, bisognerebbe godersi la vita sino ai cinquant’anni per poi andare a lavorare sino alla morte, resta qui con noi che il sole sorge già».

Il forte boato di un tuono rimbombò fuori dalle decadenti mura di questa casa dell’orrore. Perché? Perché capitavano tutte a me? Cominciai a maledire tutto ciò che mi venisse in mente…

Mentre Carlo poggiava la sua mano sulla spalla, vidi rientrare la signora nel soggiorno, in una mano, con un equilibrismo perfetto, sorreggeva un vassoio con fondo a specchio che scintillava riflettendo in maniera intermittente la flebile luce del camino e nell’altra maneggiava un attizzatoio. Mi stavo letteralmente cacando nelle mutande. Mi divincolai dalla presa di Carlo e con un lesto movimento, in posizione di difesa, accennai:

«Signora posso esserle d’aiuto?»

«Siediti Nicola, sono anni che non vedo alcuno…».

Poggiò il vassoio su un tavolinetto vicino alle mie ginocchia, Carlo nel frattempo si era perfettamente mummificato come i trofei di quella casa del cazzo. Ma chi me l’aveva fatto fare?

La signora si avvicinò al camino e sferrò un violento colpo di attizzatoio contro un pezzo di legno che resisteva alla furia del fuoco. Non ero tranquillo.

«Assaggia pure Carlo, non temere, è un Cognac prelibatissimo».

Versai due dita in un bicchiere di vetro modello osteria e lo portai alle labbra. Carlo rinvenne dallo stato di narcolessia e cercò di afferrare un bicchierino, uno dispotico schiocco sulla mano con l’attizzatoio lo bloccò:

La signora aggiunse:

«Fermo Carlo, altrimenti stanotte girerai per la casa come un vampiro».

Carlo fu riportato in uno stato di rincoglionimento.

La sovrana della casa, cominciò a farmi un piccolo ripasso di storia famigliare, dal suo matrimonio con un uomo odioso e violento, sino alla nascita e alla morte psicologica di Carlo.

Tra una pausa ed un’altra, il Cognac scorreva a flussi esagerati.

«Sai, caro Nicola, Carlo sarebbe potuto diventare tutto ciò che avrebbe voluto, un ragazzo brillante, intelligente, bello ma fragile, come questi bicchieri di vetro».

Ne lanciò uno nel fuoco, ci fu una violenta vampata, mi ritrassi sulla poltrona. La strega della casa finì il discorso dicendo:

«Hai visto quel bicchiere carico di energia? Hai notato che reazione ha avuto nel rompersi?»

«Minchia signora, mi scusi, certo che ho notato»

«Ebbene vorrei che a Carlo accadesse questo, che si frantumasse, per far finalmente sprigionare la sua vivacità interiore una volta per tutte, ma ahimè, mio figlio, il mio unico figlio, si è riempito la testa di troppe schifezze, droghe e psicofarmaci, è irrecuperabile oramai».

Un altro forte boato proruppe dal cielo, ed immediatamente il cellulare cominciò a squillare, sullo schermo giganteggiava la scritta MAMMA. Dio sia lodato, pensai.

«Si, pronto Mamma, si certo, sono a casa di Carlo Lo Vecchio, mi precipito, lo so che sta piovendo ma adesso mi faccio prestare un ombrello dalla mamma di Carlo…»

«Ma quale ombrello, ti servirà una zattera!!! Ora chiedo a papà se ha voglia di venirti a prendere. Peppinoooooo, Peppinoooo ma smettila di amoreggiare con quei peperoncini. Vai immediatamente a portare in salvo Nicola dalla casa della famiglia Lo Vecchio, immediatamente ti dico!!! Quelli sono dei pazzi furiosi. Muoviti!!!»

Sentii mio padre che rispose:

«Nicola chi?»

«Figliolo, tra cinque minuti, sperando che non sbagli strada, verrà papà a prenderti, fatti trovare fuori dalla porta».

Mentre pensavo a mio padre, con una vena d’ironia, alzandomi dalla poltrona avvertì il Cognac salire tutto d’un balzo nella testa. Che poi, pensandoci, perché le casalinghe si ostinano a chiamarlo Cognac e non “Cognàc”, con la giusta pronuncia alla francese? E mi chiesi anche per quale motivo le mamme aggiungano sempre quel filino di zucchero in più nella preparazione, forse per addolcire i propri figli? Stordito mi tenni in piedi e chiesi alla fattucchiera della casa di accompagnarmi all’uscita…
 


 

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*Nicola Capocchia è giornalista della Gazzetta del Popolo, redattore del magazine ilovezombie.it

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