Racconti brevi

Uno qualsiasi

 

Anzi no, e sticazzi! Ma mo’ vi racconto pure perché.

Dalla mia fisionomia, persino inequivocabilmente lombrosiana, si potrebbe ardire che abbia origini sicule, e probabilmente non sarebbe errato, ma nacqui ad Ajaccio il 15 agosto del 1769 mentre i miei genitori arrostivano sotto un ponte corso. Se avessi scelto io, avrei optato per una trattoria del Tufello a Roma o per piazza Indipendenza a Paternò di Sicilia. La vita a volte è infame, e mi “ritrovai” citoyen, rivoluzionario e condottiero sì, ma disgraziatamente francese.

Probabilmente potrei essere definito un emigrato per svariati motivi, e presto il mondo s’avvide che non ero certamente uno dozzinale, il mio nome suona e risuona ancora, nei libri di storia, di cronaca, ecc… e così sarà fino alla fine del mondo. La sorte purtroppo fu funesta, aveva in serbo per me – manco a dirlo – il confino, persino in un’isola, Isola dei Liri. Ah no! Era Sant’Elena, maledetti britannici.

Ero figlio unico e mio padre mi spedì ben presto in una Regia Scuola Militare; voleva togliersi dalle palle questo rompicoglioni. Ancora una volta… ecco il destino che diviene una nemesi, e non so se per me o per lui. Su una cosa aveva ragione: On devient l’homme de son uniforme.

Non ero altissimo, e neanche ora, diciamo sui 168 cm, ma a quei tempi i francesi erano nani e tali si sono conservati. Ero nella norma. Normodotato. Va be’, a chi frega della mia altezza.

La mia nazione divenne grande grazie a me, volevo ripulirla da idioti e nemici. Mi fermò la Storia, giudice inequivocabile, altero, corrotto che spesso sovrasta il genio. Però sono sempre risorto, come se fossi immortale, folgorante, procelloso e intrepido. Belle parole, quasi manzoniane.

Non ero solo un uomo inconsueto, ma l’abile meccanismo risolutivo che costruisce il ponte tra la dissoluzione finale di un’era decadente e la restaurazione, ero il destino d’Europa, un esplosivo, lo straordinario che risana un’epoca, e la porta di nuovo in uno stato di regresso. Altro che “usurpatore”, forse fui un incompreso. Ero la formula vincente del Fato. Ma un’accozzaglia di politicanti, traditori, generali di cartone, miseri uomini banali, rettili da teca, spense il fuoco di un animo leggendario, soffocando la mia passione di risanamento. L’uomo era un servo immane. Una vuota finzione. Che gliene importava della verità, della giustizia, del trionfo della purezza? Un cazzo. Sarebbe stato meglio allevare cinghiali, almeno me li sarei mangiati. E forse così avvenne.

Gli unici veri compagni, fidati, sani, incorruttibili, genuini e diversissimi dal verminaio degenerato che avrebbe voluto annientarmi, erano i miei soldati invisibili, i miei amici, coloro che mi idolatravano e ammiravano come un dio della montagna, un vulcano in continua eruzione.

La liberazione presuppone una volontà di cambiamento, un’esperienza interiore che difficilmente può essere inculcata. Dalle Alpi a Policoro provai davvero di tutto. Mai la disperazione e mai la sconfitta. Potevano estromettermi, calunniarmi, vituperarmi, esiliarmi, persino odiarmi. In fin dei conti potevano solo fermarmi. Il mio compito oltrepassava l’attualità, ero la speranza illuministica, la razionalità mista al fulgore, ero impeto ed ero vigore. Sapevo che il cambiamento e la liberazione non avvengono per virtù di un miracolo, ma grazie ad un semplice ricorso alla propria volontà, il desiderio del nuovo e del possibile. E mai fui misoneista.

Avevo sempre ricercato il bene della mia patria, inseguito avversari come una belva predatrice, scavando nelle più luride cloache e bassifondi dei territori che avrei voluto ripulire. Il mio dovere era il piacere della caccia, stanare e assaporare la feccia che cadeva in trappola nel vortice del mio inesorabile istinto vorace. Ero insaziabile. Attendevo e inseguivo gli spregevoli malriusciti col trionfo del cannone che illumina la notte. Io atterrivo! Ero il soldato di un avvenire migliore, la speranza e lo scopo in un mondo maleodorante e inane, in una terra di fuochi e di devastazioni sotterranee. Colpivo rapido e preciso.

La coalizione di masse accozzate come mandrie di gnu imbizzarriti mi caricò nel deserto della mia selvatichezza. Ero stato lasciato solo in un territorio stracolmo di infide insidie, alla mercé di un apparato che ha come fine solo la propria conservazione. Privilegi e vite lussuose, animi corrotti in corpi di parassiti. Ero circondato da epidemie striscianti.

Un giorno m’imbarcarono per un’isola sperduta, e da lì non avrei mai più fatto ritorno, almeno da vivo. Anni dopo “ritornai” in patria con onore e lì sono ancora presente a testimonianza della mia eternità, “l’oltre-uomo” che fagocita il sovraffollamento di bestie addomesticate e putrescenti. Il controtiranno di ogni assuefazione placida e inerte.

Forse dovrei essere morto, e non lo sono. Forse dovrei arrendermi, fortunatamente non ci penso affatto. Ho altra indole e altra storia. Sono partito per un esilio volontario, e non me ne pentirò.

Vivo in un’Oasi bellissima, che degrada verso un fiume, circondata da monti e perimetri naturali, lontano dalla “civiltà”, lontano dal mondo apparente. Allevo cinghiali, coltivo pomodori, nuoto nella mia solitudine pensosa.

 

Sono seduto sulla poltrona del mio studio, i piedi appoggiati alla finestra. Fuori piove, guardo il cielo grigio, e mi godo un sigaro toscano. Non sono triste. Me ne fotto. Je ne regrette rien. Domani devo scrivere un articolo contro uno pseudo-scrittore, un omuncolo laido e disperato, della periferia napoletana, un mezzo idiota, anzi un vero cretino osannato e ammirato da una massa di neogiacobini che a stento potrebbero leggere una rivista di gossip o, meglio ancora, i libri di uno così. Puzzolenti, scopiazzati e mediocri.

Sant’Elena è solo un ricordo. Adesso scrivo a tempo perso per un giornale. Vorrei ancora firmarmi Napoleone Bonaparte, ma sarei preso per pazzo. Per tutti sono ora uno scrittore. Je suis Nicola Furia. Ça va sans dire.

 

Joe Oberhausen-Valdez

 


 


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