Racconti brevi

Il castello di Caccamo

 

L’antico maniero sorgeva sulla sommità di un imponente costone roccioso. Ai suoi piedi si estendeva una grande pianura, costellata di abitazioni in pietra rustica. Imponenti mura merlate lo circondavano. Era chiaramente stato costruito per poter scorgere la presenza dei nemici da parecchi chilometri di distanza. In epoca normanna, infatti, al suo interno era racchiusa una fortezza di fattura araba. Come molte costruzioni storiche siciliane lo stile normanno e quello arabo si erano armonicamente fuse per dar luce ad opere architettoniche e artistiche di grande bellezza. Il castello di Caccamo non faceva eccezione riguardo a questo aspetto. Era bellissimo e maestoso.

Rimasi parecchi minuti col naso all’insù ad ammirarne forme, proporzioni e quell’aura di magnificenza e di storia che traspirava dalle sue mura imponenti.

Un soffio di vento freddo però… mi risvegliò dalla mia contemplazione estatica per ricordarmi che la sera si stava approssimando ed io ero in ritardo per un impegno di lavoro.

Aggiustai la bretella della borsa sulla spalla e mi avvicinai alle scale apprestandomi a salire ma rimasi sconvolta dalla difficoltà del percorso.

Ero stata invitata ad un evento chic per poter intervistare la crème della società Palermitana e dare risalto all’evento tramite il giornale per cui lavoravo. L’elegante invito, che mi era stato recapitato per posta, chiarificava esplicitamente ai suoi ospiti di indossare un abito da sera. Perciò, nonostante la mia avversione conclamata per tacchi alti ed abiti più scomodi di un paio di jeans strappati ed una t-shirt, ero stata costretta ad infilarmi l’unico abito adeguato che avevo, utilizzato quando mi era toccato fare da testimone a mia cugina e mai più uscito dall’armadio da quasi tre anni; e a farmi prestare dei trampoli assurdi e pericolosissimi dalla mia vicina di casa. Per l’occasione mi ero persino spinta ad andare dal parrucchiere per farmi truccare e pettinare adeguatamente, visto che personalmente di spazzole e make-up ne sapevo quanto di fisica quantistica.

Ed ora mi trovavo a dover letteralmente “scalare” una rampa di scale irta e faticosa, composta da scalini lastricati di piccole pietre tonde, insidiose e lisce. Non potevo fare l’equilibrista su stiletti di dodici centimetri e reggendo un vestito lungo e comodo quanto un palo infilato su per il sedere… ottimo inizio!

Sbuffai e bestemmiai come uno scaricatore di porto e feci l’unica cosa sensata da fare di fronte alle difficoltà della vita… tolsi i “trampoli” ed affrontai il percorso a piedi nudi sulla fredda roccia.

Giunsi finalmente, e non senza difficoltà, sudata e ansimante come un maratoneta dopo una corsa di quaranta chilometri, all’ingresso monumentale del palazzo dove trovai ad accogliermi nientemeno che… il nulla.

Non c’era nessuno! Alcuni bracieri alti circa un metro erano posti ai lati dell’ingresso del cancello in ferro battuto. Un tappeto color sangue invitata a continuare il percorso fino ad un’entrata aperta e posta alla fine di un’ulteriore ripida salita, questa volta senza scale. Fortuna…

Ma non si percepiva la presenza di anima viva. Non una voce, non una risata, nemmeno un piccolo bisbiglio proveniva dall’interno del castello.

Un brivido di apprensione mi percorse le braccia rizzandomi tutti i peli che le ricoprivano. Il pensiero di dover ricorrere ad una ceretta, il prima possibile, sfarfallò un attimo nel mio cervello ma fu annullato quasi subito da una certa ansietà che cominciò a serpeggiarmi nel corpo. Ero in ritardo di quindici minuti, possibile che avessi letto male l’orario sull’invito? Possibile che fossi arrivata talmente tardi da perdermi completamente l’evento? Strano, molto strano… ero convinta che proprio quella mattina lo stesso organizzatore mi avesse confermato, tramite messaggio, che l’orario previsto per l’inizio dell’evento fosse per le diciannove e trenta.

Cominciai a frugare nervosamente nella mia borsetta alla ricerca del cellulare, avvertendo la sensazione di essere osservata da qualcuno alle mie spalle…

Mi voltai di scatto col telefono in mano, e quell’impressione divenne quasi certezza.

Un alito di vento gelido sollevò sul collo i riccioli della mia assurda acconciatura. Ma nessuno era là.

Aggrottai nervosamente le sopracciglia e cominciai a smanettare sul monitor alla ricerca del messaggio dell’organizzatore.

Non mi ero sbagliata. L’orario previsto era alle diciannove e trenta ed io ero in ritardo di un solo quarto d’ora… non era possibile che fosse tutto già finito. Poteva essere che fossi io in netto anticipo su ospiti ritardatari?! Probabile! Nonostante la mia cronica abilità ad essere sempre in ritardo mi portasse a scartare questa ipotesi inverosimile… ma mi chiesi, dove fosse il personale di servizio. Mentre mi arrovellavo su questi amletici quesiti, un’ombra comparve sulla soglia, oltre la salita col tappeto rosso.

Era stato un movimento fuggevole, il rapido apparire di un lampo di colore oltre le vetrate.

Ma c’era stato. Non mi ero sbagliata. Mi era parso di vedere l’interno rosso di… un mantello svolazzante.

Dandomi mentalmente dell’idiota per aver deciso di fare la coraggiosa proprio nel momento meno opportuno, mi scoprii, mio malgrado, a percorrere lentamente la salita. Le gambe sembravano muoversi da sole, come possedute da una volontà esterna al mio stesso corpo. Tenevo ancora in mano le stupide e scomodissime trappole che la mia vicina aveva l’ardire di chiamare scarpe, perciò affrontai la pendenza ancora a piedi nudi…

Tremando inconsapevolmente oltrepassai l’uscio.

L’anticamera in cui mi trovai era spoglia, eccetto che per un piccolo tavolo ricoperto da un tessuto di broccato bordeaux, su cui era poggiato un grosso e polveroso libro aperto e delle applicazioni di ferro battuto in cui erano inserite delle lampade ad olio accese che illuminavano fiocamente l’ambiente.

Mi domandai se la corrente elettrica non fosse ancora giunta in quelle zone… l’ambiente era stranamente buio, nonostante fossimo ancora in settembre e fuori non fosse ancora sera. Lanciai un’occhiata rapida alle mie spalle per accertarmi della presenza del chiarore del cielo che avevo appena intravisto e rimasi a bocca aperta…

L’arco in pietra che avevo appena oltrepassato era chiuso da una pesante porta di metallo, sprangata e sigillata; e dell’aria tiepida estiva che entrava dalla porta spalancata fino ad un attimo prima non rimaneva nulla. La temperatura sembrava essere precipitosamente crollata di oltre dieci gradi. Piccole nuvolette di fiato caldo e condensato cominciavano a venire fuori dalle mie labbra rigide per il panico ed il freddo improvviso. Mi sembrava di essere entrata in una cella frigorifera… la porta spalancata fino ad un attimo priva era ora sprangata e chiusa. Nessun rumore aveva annunciato l’evento… come diamine era possibile che un rettangolo di legno, che probabilmente pesava ben oltre i miei, dignitosissimi cinquantacinque chili, si “fosse” chiusa senza che io percepissi il minimo sibilo? Avevo certamente passato i trent’anni da un po’ ma il mio udito non necessitava ancora dell’ausilio di un apparecchio meccanico per cogliere i rumori… a meno che non si trattasse di mio marito che spesso mi chiedeva di accompagnarlo a correre. In quel caso diventavo stranamente e precocemente audiolesa…

<<Cosa diavolo sta succedendo qui?!>>, gracchiai con voce tremante nel silenzio del vestibolo.

Incominciai ad indietreggiare lentamente spostando il capo da un lato e dall’altro per cogliere anche il più piccolo sentore di presenza umana o inumana… pensai con la mente già rivolta alle terrificanti immagini di tutti i film del genere horror che mi ero avidamente e consapevolmente sciroppata fin dai dieci anni di età…

<<Ok, cerchiamo di stare calmi…>>, continuai tentando di tranquillizzarmi, <<questo non è un romanzo di Stephen King è la banale, monotona e tranquilla realtà… perciò>>, mi interruppi avendo improvvisamente avvertito il suono di quelli che sembravano passi, giungere dal piano superiore.

<<Bene se questo non è un libro di Stephen King, io non sono una cazzo di eroina coraggiosa e masochista che si sacrifica per la causa!>>, conclusi un attimo prima di lanciarmi con la forza della disperazione verso la porta in acciaio che mi separava dalla libertà e da quel posto da brividi. Tentai in tutti i modi di aprirla tirando con forza la maniglia, sudando copiosamente e tirando giù tutti i santi del paradiso tra una bestemmia ed una invocazione alla Madonna. La coerenza non era mai stata il mio forte in momenti di lucidità, figuriamoci in momenti di crisi mistica e di terrore.

Mentre io accanivo i miei inutili sforzi nel tentativo di aprire una porta, chiaramente sbarrata, i passi si erano fatti più forti, e qualcuno era entrato nell’anticamera in cui mi trovavo.

Rifiutandomi di morire da coraggiosa ma preferendo non guardare la morte in faccia, decisi di non girarmi e continuare invece il mio inutile e disperato soliloquio con la porta in acciaio.

<<Apriti, cazzo, apriti…>>, continuavo a ripetere con perfetto aplomb british.

<<Signora…>>, sentii sibilare da una voce d’acciaio. Che sembrava quasi deridere i miei sforzi.

Non mi voltai non risposi non mi fermai nemmeno. Vaffanculo a lui, lei o qualunque altra cosa fosse. Non sarei morta da eroina: ma nemmeno da fessa. Sarei morta lottando.

Strenuamente e ferocemente e con la forza della disperazione… contro una porta chiusa.

 

Il custode del castello viveva in una casetta dal tetto in mattoni poco fuori le mura del maniero.

<<Ho sentito un urlo>>, riferì con semplicità alla moglie, entrando in cucina.

<<Proveniva dal castello?>>, domandò quest’ultima senza nemmeno voltarsi.

<<Sì>>, confermò in tono piatto il marito.

<<Appendi il crocifisso alla porta>>.

Il custode fece ciò che la moglie gli aveva detto.

Quella notte stessa passai dinanzi al loro uscio. Vidi la croce. Non mi fermai.

I miei piedi senza scarpe mi portarono giù fino alla vallata. Percorsi chilometri di stradine montane e dissestate, senza emanare nemmeno un’imprecazione. Mi fermai dinanzi alla prima casa senza crocifisso esposto ed entrai senza bussare.

Certo, i fantasmi non bussano. I morti non chiedono permesso.

Scivolai come fossi fumo attraverso le fessure, e con una grazia che in vita non avevo mai conosciuto, se non nei miei sogni di principessa-bambina, regalai il mio bacio mortifero agli abitanti di quella dimora. Visto che c’ero, partii dal giovanotto aitante, steso mezzo ubriaco sul divano. La morte aveva i suoi vantaggi… era divertente essere un vampiro.

Quella sera al castello di Caccamo era cominciata la mia nuova non-vita. Oppure una nuova vita da… non-morta. Ero ora un essere, ero ora un Nosferatu…

 

Caterina Schiraldi

 


 


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