RaccontiRacconti brevi

Una città antica, quasi scomparsa, forse ancora viva nelle sue rovine, è una suggestione che trasporta in un’epoca che non ha delimitazioni fittizie, non è confinata in un perimetro che noi chiamiamo tempo.

Il trekking a Noto antica era stato organizzato da un’amica, che per l’evento aveva scelto la miglior guida possibile, Nero D’Avalos.

Il percorso da seguire non era difficilissimo, neanche pericoloso, immerso in un territorio rigoglioso, costellato di piante sconosciute che emanavano un profumo selvatico, vivo, primitivo e ancestrale.

Dopo circa un’ora di camminata arrivammo a un eremo che dominava silenzioso e abbandonato una valle racchiusa tra giogaie, che avrebbero protetto per secoli una casupola che laggiù conservava ancora qualche vita, come si evinceva dal fumo di un comignolo.

Tornammo indietro, imboccando la regia trazzera maestra, per scendere a sinistra attraverso una scoscesa scalinata scavata nella pietra verso il fiumiciattolo ricco di diroccati mulini ad acqua. Per strada vedemmo una vipera morta da poco, ancora splendente nella bellezza dei suoi colori peculiari, schiacciata a terra da un qualche mostro inanimato che rombava da una combustione moderna. L’animale fluiva semplicemente per scaldarsi a quel sole di una primavera che non avrebbe più rivisto.

Perlustrando il torrente si scorgeva qualche “buca”, ossia una sorgente che creava una piscina naturale, le cui acque erano limpide e verdeggianti. Sembrava la dimora di un’entità fiabesca.

Più avanti il fiume continuava a scorrere slanciandosi su un “salto” che diveniva una cascata di quaranta metri adagiandosi in una gola irraggiungibile se non con corde e attrezzatura specifica.

Ma prima della cascata respirava placida e meravigliosa la più bella sorgente di tutte quelle vallate. Era la Buca della fata, così chiamata da una favola che traeva origini probabilmente dal medioevo.

L’acqua vi entrava silente dal torrente, scendendo fra le rocce, aveva un colore meraviglioso, rifletteva il sole che la illuminava per tutto il giorno, abbagliava e quasi mi attraeva a sé. Avrei voluto fare il bagno, ma la guida me lo sconsigliò, perché ai suoi bordi un tempo cresceva, stranamente per quella flora, l’amanita muscaria, un fungo che provoca allucinazioni, e sebbene non se ne vedesse neanche un solo esemplare, l’acqua forse ne era ancora contaminata.

Gli sorrisi, con un’espressione tra il lusco e il fosco, ardevo dalla voglia di volermi tuffare. Mentre Nero mi descriveva ancora le proprietà di quella pianta stupefacente e straniante, io mi ero già svestito, e mi ritrovavo ricoperto solo dal costume che avevo indossato di mattina per l’evenienza. Poi uno slancio in quella buca, immergendomi fino a raggiungere il suo abisso.

Era poco prima di mezzogiorno, allorché, scendendo dall’autobus in una città poco conosciuta e mai visitata, mi imbattei nel viso di una ragazza che mi veniva incontro.

Anche lei era scesa da un mezzo che annebbiava l’area con un gas di scarico nero e contaminante. In mezzo a quella foschia che m’intossicava i polmoni, mi ottenebrava la vista e i sensi, quegli occhi abbaglianti e di un colore strano, forse cerulei, forse glauchi, ma anche persino verde mare, mi arrestarono, bloccandomi a guardarla. Non era altissima, e neanche una nana, eppure slanciata in una corporatura sinuosa, longilinea, accattivante, su cui si stagliava un viso candido che emanava i brividi dell’incerto. La sua pelle si spandeva vellutata, liscia e armonica, dalle gote all’intorno, però quel che scagliava fuoco era la sua iride, gli occhi che colpivano, penetravano e abbattevano.

Me ne resi conto maggiormente quando lei tornò indietro verso di me e mi disse: “ma noi ci conosciamo!”.

Mi ricordava in effetti un non so che di già visto. Quei capelli che si ondulavano, scendendo folti fin sulle spalle, confermarono la mia sensazione. Tuttavia non me ne sovvenivo, non appariva in mente il suo nome, chi fosse. Eppure un viso così è indimenticabile, non può scomparire dalla memoria, ci resta e la scava, creandovi una buca profonda e sconvolgente.

Mi esaminò con una posa lacerante ed estatica allo stesso tempo, fulminante e sensuale, quasi un ghigno fiabesco. Restammo qualche secondo in silenzio, muti come se i nostri sguardi attraversassero l’infinito, perdendosi in un tempo che sembrava aver le sue radici in un passato lontanissimo. Quell’espressione mi dilaniava, quegli occhi mi incantavano, quella ragazza era un’ebbrezza. Rapiva e trascinava.

Poi si avvicinò al mio orecchio e mi bisbigliò: “sono io, sono la fata. Mi hai salvato tantissimo tempo fa, più di seicento anni addietro.”.

Rimasi incredulo.

Forse costei aveva bevuto, si era drogata, o era semplicemente fuori di testa.

Ma quando mi disse: “vieni con me, te lo faccio ricordare in un minuto! e ricorderai tutto…”, la seguii senza pensarci un attimo. Lei mi conosceva davvero, ed io lo percepivo. Era un evento assurdo e straordinario.

Andammo in un bar del centro storico, sembrava Ragusa. Ogni tanto lei sorrideva, tutta allegra e felice, come se mi avesse in pugno, come se suonasse il flauto e io danzassi ingenuo e cobra. Ci sedemmo fuori, l’uno di fronte all’altra, accanto a una fioriera, sotto un sole termonucleare e meraviglioso. Si avvicinò al mio viso, poggiò la sua mano calda e delicata sulla mia, mentre io andavo in estasi, col sangue che affluiva e pompava tritolo in ogni cellula delle mie carni. Poi mi disse: “Noi ci conosciamo da un’eternità, e te lo posso dimostrare perché non puoi aver dimenticato il sapore della mia bocca, le mie labbra che si avvicinavano alle tue e ti sconvolgevano, la mia dolcezza che ti suggeva l’anima e tutto il resto. Io sono Francesca!”.

Mi baciò e forse persi i sensi, o forse ero già svenuto prima. Vidi un prato, io e lei guardavamo il mare, da un monte, sotto il quale scorreva un rigagnolo; la spada era poggiata alla mia destra, prigioniero dei suoi occhi, un libro buttato a terra, la sua voce che diceva: “ti amerò per sempre”. E poi una piazza e un rogo.

Lei era di una tenerezza e di un’ingenuità che sembravano irreali in una terra immonda come questa. Dolcissima e gentile, raffinata e soave, seducente e pudica, aveva nei suoi occhi, delicati e abbaglianti, una scintilla che dapprima riluceva e poi abbagliava e infine accecava. Sprofondava me, con tutte le mie carni e gli avamposti più lontani dell’anima, in una sorta di vortice della perdizione, in cui mi abbandonavo tra esaltazione sanguigna e desideri attanaglianti, ebbro, smarrito nell’euforia dei sensi.

La prima volta che la vidi, passeggiava con la madre, in un viale di fronte al mare, tenendo sotto braccio un libro malconcio, probabilmente letto e riletto. Lei mi incrociò con lo sguardo, fulminandomi all’istante, trascinandomi in quelle sensazioni che più in là divennero emozioni, divennero palpitazioni in un cuore che ruggiva già solo al guardarla.

Le seguii, di nascosto, ma neanche tanto, affinché lei si accorgesse che le stavo appresso.

L’edificio era di pochi piani, la porta in legno massiccio, forse di castagno. Prima di entrare, lei si girò e mi centrò nel suo occhio di falco. Quel colpo mi raggiunse in pieno petto, e inspirai un otre stracolmo di cariche esplosive, un impulso alla mia autodetonazione. Era l’eccitazione del sangue che fluiva inarrestabile sotto uno strano slancio, inondandomi il corpo di impulsi temporaleschi, pompandomi con pressione inusitata il soffio vitale, in balia di una burrasca prodigiosa. Quella belva esile e dolciastra mi sbranava con le sue fauci belluine. Era proprio figa.

Per più di un mese mi recai vicino alla sua dimora, osservando i movimenti e le abitudini dei genitori, memorizzando ogni singolo secondo della vita di quella casa. Oramai conoscevo pure il respiro delle pareti, il rumore delle imposte, il colore del cielo che mutava sembianze in base all’ora.

Spesso passavo sotto una delle finestre, e un giorno lei si accorse dal mio berretto che ero io, e mi lanciò un involucro contenente qualche mandorla. In quell’incarto campeggiava e risaltava una carta con un bel nome: lei era Francesca.

Percorrevo quella strada a tutte le ore del giorno, per svariate settimane, quando un altro bigliettino tra le mandorle mi avvertì che il dì seguente lei sarebbe rimasta sola in casa per tutto il giorno. Quella notte non chiusi occhio, avrei avuto finalmente la possibilità di incontrarla e vederla realmente in tutta la sua bellezza.

L’alba si approssimò celere e improvvisa, i miei occhi erano ancora obnubilati da mille sogni e da un’infinità di ansie, di brame che dissetassero la mia passione.

Il sole era già infuocato, quando raggiunsi la casa di Francesca, mi aspettava dietro un vetro, semicelata dall’oscurità degli interni. Qualche secondo dopo il portone di castagno si aprì e io corsi verso l’uscio attraversandolo con uno slancio animalesco.

Lei era di fianco la porta che chiudeva il mondo, guardandomi con quelle fiamme che mi arsero e mi attrassero al suo viso che toccai volando, baciandole le labbra, usurpandone la bocca, finché un attimo di respiro ci fece svegliare nudi in una stanza, in un letto immacolato, in un terzo piano di una dimora che sembrava un nido.

Quel che avvenne fu una simbiosi totale, le membra avviticchiate nel tremulo sconfinato dell’abbraccio, gli occhi sismici che tralucevano il visibilio, il respiro che pareva un vento, l’anima consunta e fusa, i sorrisi indistinti nell’ardente allaccio. E poi il rapimento nelle nostre libagioni, boati sincroni e ineffabili.

L’oscurità subentrò alla luce e dalla finestra entrava una brezza fosca. Era tardi, avrei dovuto andar via e così feci. Lei mi baciò ancora nuda, calda e ansante. Ci saremmo rivisti chissà quando. Scesi abbasso, aprii la porta e mi tuffai nella notte.

I giorni seguenti furono stracolmi di immagini di lei, ricordi e sensazioni che quasi toccavo, rivivevo nel corpo, in una contemplazione fantastica che evaporava nell’intrico di una mente che si estasiava. Ci deliziammo un’altra volta su un piccolo prato che discende sino al fiume, in un tempo che scorreva lesto e ladro.

Una sera balzai sul mio cavallo e imboccai la strada che menava alla sua abitazione. Nessuna luce vi appariva, sembrava una casa spenta e disabitata, alquanto triste. Fermai la bestia ed ascoltai, cercando di udire un rumore, una voce, un suono di vita. Eppur non si percepiva niente. Spronai la razza pura del mio quadrupede volgendo il tiro verso la piazza, in cui avrei trovato un’osteria o una bettola per mangiare e inebriarmi di vino fino all’indomani.

Una moltitudine di gente, bifolchi, villani, preti e fuochi si moltiplicavano e saturavano lo spiazzo di fronte alle scalinate della chiesa di San Francesco all’Immacolata, gridando e inveendo contro una pira, tre pali che serravano un uomo e due donne. La meraviglia fu nel riconoscerli. Quella sera avrebbero preso fuoco.

Lento e attento mi avvicinai a lei, che già piangeva e cospargeva gli occhi belli di un lucido umettare. Bisbigliò con voce tremante, vacillando il suo viso etereo: “non sono una strega, sono una fata”, mentre già il fuoco lambiva fra me e lei. Ero un cavaliere ed ero armato. Sguainai la mia spada e poi…

Seduti a quel tavolo di un bar qualsiasi, bevendo un’acquavite, attorniati dal sole infinito, nella più bella isola del nostro mare, glielo chiesi: “ti liberai?!”

Lei sorrise e mi baciò. Emersi dalla Buca della fata, stringendo ancora tra le mani un meraviglioso esemplare di amarita muscaria.

Joe Oberhausen-Valdez


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