Racconti

Fuori calava una nebbia mesta e fitta che impediva di scorgere il cielo e ogni altra cosa. La pioggia cadeva intermittente, lenta, come se avesse vergogna di essere più forte.

La mia dimora era circondata da terreni sconfinati e inaccessibili, per cui non si sentivano che rumori di cascate, uccelli e altri animali; percepivo anche un ronzio di mosconi estivi, fastidiosi e nascosti.

Credevo che il mondo fosse fermo e immobile, persino morto, inesistente, ma così non era, neanche nella mia terra, un angolo di purezza lontano dalla civiltà.

Osservavo quell’atmosfera acquorea in un rilassamento straordinario, tuffato nel mio tappeto erboso a leggere un panorama che mi appassionava molto, anche se avevo attraversato più della metà delle sue pagine, piene di vocaboli difficili, eppure non così tanti da aver bisogno di consultare un vocabolario, che tra i boschi è inutile.

Quasi al volgere del crepuscolo la pioggia cessò di proiettarsi in quell’eremo. Uscii al di fuori del giardino naturale per allungare lo sguardo e rasserenare gli occhi. La mia rupe prediletta mi permetteva di visionare il mare oltre i colli e i vari avvallamenti, immerso in una polifonia di nubi minacciose, specchio di un veneficio prisco e fumigante dell’animo catafratto, aspettando un rilucere e una dilettazione al di là del botro.

La cicatrice che si estendeva lungo il braccio fino a raggiungere una cucitura forse di cinquanta rammendi cutanei, mi doleva per il tempo umido, e quindi mi grattavo, assaporando il silenzio e la sconfinatezza di quell’orizzonte. Mi raggricciai sugli scalini e mi abbandonai a quel senso di distacco confortante che solo la vista del cielo, del mare o di qualcosa di infinito e di indistinto, può concedere.

Lassù speravo e sognavo che la bella stagione arrivasse a riscaldarmi col suo astro primario, un lampo intermittente che non dovrebbe mai avere una conclusione. Pensavo agli innumerevoli tuffi nell’acqua, a rosolarmi al caldo chiudendo gli occhi, sentivo l’infinità attraversarmi e soffermarsi in quell’unico istante che appare immodificabile.

Idealizzavo le pareti rocciose della mia isola sulle quali fin da cucciolo mi arrampicavo, vagheggiavo le liane, alle quali mi appendevo varcando precipizi inusitati, dando sfogo alla bestialità che c’era nelle mie viscere più ignote. Ora niente di tutto questo sarebbe stato più possibile, lo inferivo amaramente dal nuovo contesto artificiale.

Non ero una belva, non ero una creatura ben definita. Considerando i peli sarei sembrato una scimmia; udendo i gridi, versi, vocalizzazioni, un essere, e se si fosse intravista l’anima… persino un uomo.

Qualcuno mi aveva strappato a quella terra, in cui vivevo tra caverne, ruscelli, assaporando il profumo dei fiori, di piante di ogni tipo, giocando nella frescura che mi avvolgeva tra le braccia di una foresta pluviale, nel più bel paesaggio che la Natura avrebbe potuto offrire a un gigante come me. Un paradiso primordiale, incontaminato e fuori dal tempo, un’isola in cui irraggiavo potenza come se fossi un sole o un re.

Aprendo gli occhi vidi varie logge e palchi, sedie e uomini che applaudivano. Io odiavo il teatro, e alla fine mi ci trovai, ancora una volta, contro la mia volontà.

Le braccia erano incatenate a due pali di acciaio al tungsteno, serrate ai polsi da robusti anelli di ghisa.

La immaginai ancora, pensando al suo corpo, ricordando quando la tenevo stretta in una mano, laggiù nel mio regno, e la scrutavo con stupore primordiale. I suoi occhi assumevano una posa, radiosi e irraggianti come quelli di un gatto, ma le sue iridi vaghe e impenetrabili trasmettevano il preludio dell’immenso.

Aveva il viso fanciullesco, candido, nitido e lucido che traluceva un sorriso ancora nascosto, seppur immaginavo che fosse il prologo e di sicuro il premio di chi si fosse avvicinato alla sua anima, che io sapevo essere intensa e dolcissima, per quel poco che me l’aveva rivelata, donandomi un’anticipazione di diletto che avrei voluto assaporare illimitatamente.

Tutte le volte che osservavo la sua espressione diafana, statica, intramontabile non riuscivo a resistere alla voglia di continuare a venerare quei fuochi che mi attraevano a sé, generandomi uno sconvolgimento che mi perdurava nella mente per ore e per giorni, invadendomi l’intelletto del suo pensiero fisso.

Ero incatenato ormai a quelle labbra avvolgenti e a quella mimica statuaria che mi estasiava, mi arroventava, mi entusiasmava, mi inghiottiva in un caos di estasi che non aveva mai avuto eguali. Lei era il miglior sogno possibile, un volo da una cima sovrastante. Rapimento ed ebbrezza, ed era vera. In lei traspariva la soavità di emozioni sconfinate e l’impulso di una passione senza scampo. Era forse l’ardore dell’amore?! Percepivo solo il suo déjà-vu, un vento nascosto nella mia anima, che giaceva chissà dove, e ora risaliva con la deflagrazione di un tifone. Era lo splendore di un’alba che sorge luminosa, l’intensità del fuoco che scalda e dona sapori senza tempo.

Adesso, ero però solo una bestia qualsiasi imprigionata ed esposta, vinta e afflitta, in pasto ad una platea che si era riversata di fronte a un palcoscenico per ammirare qualcosa al giogo. Il solito circo intriso di fiele.

Non più cieli da ammirare, e neanche orizzonti in cui vagheggiare, ma una canea che ululava e applaudiva ringhiando e grugnendo. Non ero io la bestia.

Poi udii un’orchestra di strumenti sconosciuti che intonava un ciangottare maldestro e inappropriato, che divenne fomite di una rabbia che presto sarebbe esplosa in me. E infidi rividi lei, la bella, i capelli ondulati e selvaggi che avanzava sicura verso la mia chiostra.

Non seppi mai cos’ero, recepivo solo che una forza suprema e inarrestabile iniziò a scorrere nelle mie arterie, si tramutò in potenza, assunse il vigore di una propulsione di vitalità arcana, sviluppando remota furia, la cui intensità frantumò le mie chiavarde quasi fossero fili di seta.

Ruggii, battendo il petto vigoroso e muscoloso, atterrendo il pubblico che divenne gregge, che presto scomparve al di fuori dell’arena in cerca di salvezza.

Quel mondo avrebbe conosciuto la mia ferocia.

Eppure mi sarebbe bastata solo lei, avrei desiderato tenerla ancora stretta e calda, piccola e dolce nella mia mano.

La cercai per le strade, mentre un esercito di carri da guerra mi sputava addosso dolorosi e incandescenti corpuscoli infuocati, mentre li annientavo nella mia corsa forsennata e ossessa.

Infine vidi diversi alberi pieni di vetrate, che si ergevano verso il cielo, e su uno mi arrampicai per sfuggire a quella caccia. Non mi avrebbero vinto. Ero io il nume, anche in quella foresta.

In vetta sarei stato al sicuro e avrei trovato riparo, ma così non fu.

Draghi minuscoli o macchine animate, che sputavano fuoco velenoso, mi svolazzavano all’intorno, colpendomi ripetutamente con rumorosi spilli incandescenti, finché non ebbi più forza. Ero ferito, e quasi abbattuto.

E poi ricomparve la piccola divinità, atroce nel suo fascino solare, che mi fissava cogli occhi del colore del mio mare o della mia giungla. Ci osservammo e la sfiorai, quasi abbracciandola con la mano che palpitava nell’ultima tenerezza.

Caddi, nel vuoto sovrumano, ancora guardandola inebriato perché sembrava vera.

Giacevo in una terra dura, tremulo e offuscato. Sentivo qualcosa nell’aria che assomigliava a uno squillo, un rombo di motori, o un rumoreggiar di trombe che calava finalmente il silenzio da lassù, dal cielo, ancora azzurro ancora infinito.

Joe Oberhausen-Valdez

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