Racconti

Il vento sospirava tra i rami carichi di frutti che pendevano sopra la panchina solitaria, facendo ondeggiare le arance come ballerine sincronizzate. Il cielo si stagliava sopra la sua testa, azzurro, limpido e senza nuvole, ma per Joe non era quasi mai un giorno di sole.

Già che era arrivato fin lì, decise di approfittare di quel luogo di pace, stendendosi su quella panchina incrostata dal tempo. Questa era stata installata almeno un secolo prima in maniera strategica accanto al sentiero lastricato che si snodava lungo il pendio, e permetteva una vista privilegiata della cima del vulcano. Sdraiandosi si tolse le scarpe. I suoi occhi si chiusero e la sua testa si allungò all’indietro quasi costringendosi a cercare la posizione migliore per un agognato relax. I disegni di luce e ombre proiettati dai rami semoventi dell’albero, ruotavano sul suo viso. L’ultima cosa che vide prima di abbandonarsi a se stesso fu una ragazza che correva con gli auricolari. Questa gli passò accanto senza neanche regalargli uno sguardo. “Chissenefotte!”, per un momento si sentì stranamente felice di stare lì sdraiato con le gambe penzolanti che toccavano il prato. Era in santa pace a guardare, o meglio, ad ascoltare il mondo che girava intorno a lui senza che gli fosse necessario per qualcosa. Tuttavia si ritrovò immerso nei suoi pensieri, e questo era anche peggio.

“Signore? Ciao”. Joe aprì gli occhi, sbattendo le palpebre mentre la luce del sole li inondava. “Ciao?” chiese, sfregandosi una mano sugli occhi.” Eccheccazzo”. Forse si era addormentato. Faceva fatica a capire quanto tempo fosse trascorso da quando si era sdraiato.

Una bambina con delle perfette treccine bionde e lo sguardo enigmatico era in piedi di fronte a lui e lo stava fissando. Dopo un momento che sembrò interminabile, la ragazzina dall’età indefinita, forse poteva avere tra i sei e gli otto anni, mosse un braccio e con la mano che spuntava da sotto la manica della cerata gialla che indossava, indicò le sue gambe. “Sei un robot, Signore?”

Joe guardò insieme a lei verso il punto indicato, sebbene sapesse già a cosa si stava riferendo: le sue gambe che erano distese alla luce del sole e che non erano coincidenti. Una era normale, con un piede comune, che indossava un calzino rosso a righe gialle di cotone, che si allungava poco sopra la sua caviglia umana. Il piede autentico tamburellava l’erba in un leggero gesto automatico. L’altra gamba invece, in tutta la sua stranezza, era di metallo nero lucido con inserti in grafene, un piede d’acciaio e fantastiche unghie in carbonio. Non indossava calze, perché non gli servivano. Eh già, aveva una meravigliosa protesi dove una volta aveva la gamba. Poteva quindi immaginare perché la ragazzina nordica pensasse a lui come a un robot. Si strofinò l’arto normale, distrattamente, poi la sua faccia si piegò in un sorriso severo. Se già prima non gli era sembrata proprio una bella giornata, ora il clima era virato verso il grigio e tempestoso, astratto e bizzarro.

“Oh, questo…?” chiese Joe. La ragazzina treccina annuì. “Ho perso una gamba in guerra molto tempo fa in un luogo molto lontano..” Le disse, con la voce che era diventata d’un tratto tremolante. Anche se erano passati secoli, la sua mano istintivamente si era serrata in un pugno al solo ricordo che riaffiorava. Joe poi scosse la testa mentalmente e lasciò cadere la mano nuovamente rilassata. Il piede normale tornò a strisciare ritmicamente l’erba.

“Ti sembro un robot?”

La ragazza lo guardò con quei grandi occhi verdi indagatori, ma Joe non stava più prestando attenzione a lei. Quando non si soffermava a guardare la protesi, poteva quasi dimenticare la guerra, dimenticare tutto quello che gli era successo… tuttavia i dottori gli avevano diagnosticato la sindrome da stress post-traumatico, lo avevano definito instabile e confuso.

“Beh, i robot sono come le macchine” disse la ragazzina treccina.

Joe si mise seduto infilando le mani nelle tasche del giubbino. Ormai il gelo era sceso intorno a loro. In qualche modo, il sole era scomparso dietro le nubi della mente. “E tu sei una macchina, Joe, non è vero…? Una macchina assass…”

La mano di Joe scattò dalla tasca, impugnando una piccola pistola dalla canna lunga. Ci fu il rumore attutito di uno sparo silenziato, un puff e la testa della bambina scattò all’indietro con una spruzzata di rosso e un leggero crepitio simile al cigolio di una porta non oliata. Si guardò intorno ma non c’era nessuno che avrebbe potuto ascoltate, o preoccuparsi. Lui tanto meno.

Gli avevano detto che era labile e balzano. Probabilmente avevano ragione, oppure no. Joe ripose la pistola nella tasca. Un rumore attirò la sua attenzione. Si voltò verso il corpo della ragazzina che era rimasto fermo immobile con la testa reclinata all’indietro, poi guardò dritto davanti a lui in lontananza.

“Ben fatto, bastardi. Mi avete trovato.”

La testa della bambina ebbe un sussulto improvviso e si mosse verso l’alto in modo innaturale. Joe era sempre stato un ottimo un tiratore. Il proiettile era andato dove voleva. Questo poté constatarlo mentre la testa si riappoggiava sulle spalle con un clack come di ingranaggi che si rimettevano insieme. Un occhio era ancora ampio e verde. L’altro era un buco nero carbonizzato che lo fissava e lui poteva guardare attraverso la testa. I centri del movimento erano andati a farsi fottere.

“Ti troveremo sempre, Joe.” Le labbra inespressive si mossero come se fossero scollegate dal resto dei muscoli facciali.

La testa telecomandata della ragazzina dalle treccine sporche di sangue sintetico tentò di inclinarsi da un lato, poi nell’altro inutilmente. La sua faccia era ormai intrappolata nei giochi di luci ed ombre proiettati dai rami carichi di arance. Cercò di sorridere brutalmente ma non ci riuscì, era definitivamente fuori uso.

– “Non esiste luogo in cui puoi nasconderti.”

– “Neanche voi!”.

Luca Pennati

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