Racconti
La casa era piena di quadri, ve ne stavano in ogni angolo, sparsi per pareti intere, con un criterio che solo il pittore conosceva, e che io chiaramente non capivo; alcuni erano schizzi orrendi, altri belli e particolari. Uno raffigurava una palla rossa, o meglio un cerchio tracciato col compasso, che si proiettava sul mare, forse la luna o chissà che altro.

Mi fece sedere sullo sgabello accanto al tavolino, mi portò una torta intera al cioccolato, e una caterva di libri di esposizioni svariate in città sconosciute dell’Europa.

Sfogliò pagine e pagine, elencandomi artisti e critici d’arte a me ignoti, alternando la descrizione dei suoi capolavori con l’esposizione di vari metodi sportivi per raggiungere la perfezione fisica e trasformare un atleta da scarso a professionista, inglobandovi teorie sulla meditazione, il digiuno, disprezzando un “alimento” che nuoce a colui che lo beve dopo la fanciullezza.

Il personaggio era alquanto bizzarro, ma preparatissimo in ogni argomento che gli venisse in mente. Tutto lo scibile secondo lui era un groviglio da penetrare e conoscere attraverso varie teorie e libri di sapienti inglesi, iraniani, arabi, americani, e la comprensione del creato si fondava su un caposaldo irrefutabile, che spesso e incessantemente mi ripeteva come nemico dell’umanità: il latte.

Il liquido mammario si infiltrava negli intestini, raggiungeva le cellule più recondite, stazionandovi come una massa compatta; ovunque si annidasse, procurava disastri estesi, gonfiava, impediva il semplice e vitale funzionamento degli altri organi, rallentando le sinapsi e ogni connessione neurovegetativa, rincitrullendo il cervello, che si intasava di un veleno che alla fine lo portava a uno stato di inattività totale.

Ogni tanto saltava sulla sedia, faceva piegamenti sulle braccia, mentre continuava ad elucubrare cognizioni e studi oltre-oceanici, con un’agilità che era inverosimile per un uomo così anziano.

Quindi il latte, aggressore acerrimo, era davvero deleterio, lo intuivo dalla prestanza fisica di uno che non ne beveva da decenni.

Le disquisizioni si alternavano con l’andirivieni dalla “pinacoteca” come un turbine, in modo frenetico, dalla quale portava fuori altri quadri che io non avevo visto nel giro precedente. Li poggiava sulle sedie e i tavoli del vestibolo, poi me li spiegava… ritornava dentro e di nuovo fuori con alcuni manoscritti che abbondavano di disegni astrusi e inspiegabili. Un moto perpetuo.

In quelle ore non capii niente, tranne la teoria del latte, che mi parve appassionata e realistica. Ma le altre declamazioni non potevo memorizzarle in così poco tempo. Avrei dovuto prendere appunti.

La casa del pittore era sulla spiaggia.

Ogni tanto mi allontanavo da quelle dissertazioni andando verso il mare, rilassandomi con qualche tirata di pipa (lui non sopportava l’odore del fumo), e poi ritornavo da lui che mi attendeva.

Prima dell’imbrunire si fermò di botto, le sue esposizioni fecero posto ad una corsa che lo proiettò verso il parapetto dell’arenile. Iniziò ad osservare qualcosa oltre il molo, una nave enorme, che lui, esperto di mare e pesca, mi disse essere un bestione di circa seicento tonnellate.

A prima vista non compresi perché fissasse quell’orrendo mercantile, e neanche lui lo capiva completamente. Però pregustava che qualcosa di strano iniziava a prendere forma in quel tratto di costa, vicino alla banchina di attracco, allorché una motovedetta della Guardia di finanza si era frapposta fra il naviglio e il molo.

A quel punto corse in cantina e dopo qualche minuto tornò con una tela, pennelli, colori e un binocolo. Poggiò il quadro sul parapetto, fissò la nave straniera, occhieggiò col potente strumento ottico e iniziò a dipingere.

La figura che prendeva forma era smunta, sgraziata, smorta, e forse pure disgraziata. Aveva i capelli selvatici e lordi, pidocchiosi, almeno così assaporavo dagli schizzi sulla tela, in cui si stagliava nuda e volgare, priva di seno e piegata verso le ginocchia, come se fosse una scimmia che non riesce a mantenere una posizione eretta. Del resto non era ancora umana, per come lo si intuiva dal quadro.

Gli chiesi come mai la stesse dipingendo con un accenno di petto, tra l’altro abbastanza piatto e senza forma. E lui mi rispose: “perché potrebbe anche trattarsi di una donna!”. Presi il binocolo e osservai il corpo ritratto. Sul ponte della nave, appoggiato a un corrimano, curvo, legnoso e malfatto c’era davvero un essere che sarebbe potuto essere una creatura femminile. Io non la distinguevo bene, ma il pittore, uomo sagace e dall’occhio clinico, sì.

Poi volse la sera e non vedemmo più niente. Si sentivano solo sirene, voci, gridi (quasi fossero animali) o grida di gente forestiera, isterica, arabi, musulmani, germanici, con suoni gutturali e aspirati terrorizzanti (ahlmadalah halakadh, ik bbin Sturm), ma non capivo davvero che contaminazione linguistica fosse, di sicuro nordica e africana.

Lo schiamazzo cessò quando un rumore di ferraglia ammutolì la scena che si poteva solo udire.

In quel momento, il pittore, preso da un impeto improvviso e furibondo, cominciò a tracciare altre macchie sulla tela: quei mostri abbozzati divennero figure.

Cosa aveva immaginato o intravisto l’artista?! Dal dipinto si evinceva che l’enorme scafo dalla bandiera olandese schiacciava al molo la motovedetta, come un coleottero.

Gli chiesi cosa fosse davvero successo, senza usare l’immaginazione e fantasticherie strambe, mi rispose: “una pazza fanatica, o uno spirito demoniaco, ha probabilmente scaraventato un mostro marino sulla nostra polizia di frontiera, ma vedrai che ci sarà qualcuno che la giustificherà, e altri, più dementi di lei, che la santificheranno”. “E dove?” chiesi io.

“All’Anfiteatro dei pupi”.

Non compresi. Di sicuro era uno dei tanti discorsi senza senso del pittore, una deriva squilibrata e beffarda, intrappolata in aneddoti e pensieri irrazionali di eventi tortuosi e oscuri. O forse no.

Era tardi, lasciai il pittore al suo quadro e tornai alla casa al primo piano che avevo affittato per il mare a luglio, proprio di fronte alla terrazza del vecchietto, che era pure un ingegnere in pensione.

La mattina seguente mi alzai presto come al solito, uscii in balcone e guardai il mare. Da lì si vedeva chiaramente in basso a dieci metri da me che l’artista era intento a leggere qualcosa.

Bevvi un caffè, e vestendomi in fretta mi recai da lui. Il cancello era sempre aperto, e giacché conoscevo il signor P. da anni, entrai senza suonare il citofono, che tra l’altro non aveva mai funzionato. Appena mi vide, si alzò di scatto, corse verso il quadro che stava asciugandosi al sole, e me lo portò.

“Che te ne pare, ti piace ora, a cosa ti fa pensare?”

Le sue tele erano capolavori astratti, quindi non annusai niente di oggettivo, ma immaginai quel che mi colpiva, e un altro vi avrebbe visto un accadimento diverso da quello che io in quel momento coglievo. Vedevo sempre e solo quell’enorme nave, si notavano tantissimi pipistrelli neri e informi appollaiati come galline a poppa e a prua. Tre o quattro individui, emaciati e statici si ergevano dritti come birilli immobili accanto al comandante della nave, che probabilmente era quell’individuo coi capelli crespati e unti che avevo visto disegnato il giorno prima.

Esposi al pittore la mia percezione e quello confermò: “Bravo è il capitano, ma essendo donna è una ‘capitana’!”.

Non capivo da cosa deducesse che su quella nave al comando vi fosse una donna, e infatti dopo qualche minuto mi espose i suoi dubbi. In effetti, guardandola bene, nel quadro s’intende, la pupa tutto poteva essere, ma di sicuro non una donna. Ma la lettura del giornale che giaceva sul tavolo rotondo dimostrava il contrario di quel che supponevo.

Mentre io ammiravo il quadro ormai terminato, il pittore prese il quotidiano e lesse: — “Arrestata per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e per rifiuto di obbedienza a nave militare una donna di origini nordiche, comandante di una nave battente bandiera straniera.”.

“E chi è?” chiesi. E lui: “Una qualsiasi scappata di casa, o da qualche centro sociale transalpino. Una di quelle fanatiche che nascono ricche, si annoiano, vanno nelle migliori università pagate dai genitori potenti; un giorno si svegliano, apprendono dallo specchio che sono orrende, racchie, inutili, petulanti, e pure idiote, e che fanno?! Prendono a testate lo specchio, impazziscono, e partono per qualche territorio islamico, verso la perdizione, alla ricerca dell’annientamento della propria idrofobia.

In quelle terre trovano quel che cercavano: un essere che le tratta da serve o da schiave. E poi piangono e pensano ‘voglio la mamma’. Ma non possono neanche gridarlo. Laggiù c’è gente seria, c’è l’Uomo nero.

Oppure, come in questo caso, trovano l’appoggio di altri disgraziati, miserabili come lei, prostituiti alla propria ideologia, della quale sono gravide, e solo di quella, si imbarcano su una nave pirata, diventano negrieri moderni. Ma stai tranquillo che sarà rimessa subito in libertà e perfino elogiata dagli armenti del suo stesso rango. Per sua fortuna e nostra sciagura, noi viviamo ancora in un mondo civile. E se questo non bastasse, abbiamo sempre il celeberrimo Anfiteatro dei pupi, ormai simbolo della nostra redenzione purificatrice”.

Qualcosa di quella lettura mi sembrava strana, e me ne resi conto quando avvicinandomi al giornale vidi che era tutto imbrattato dall’olio del cartone contenente gli avanzi di una pizza enorme. Quindi non aveva letto, aveva inventato, perché il giornale era stato stampato giorni addietro.

Il signor P. mi spiegò che la sera precedente la moglie e le amiche avevano mangiato quella leccornia… dicendo che era buona, buonissima.

“Raggiunta una certa età, queste vecchie dovrebbero dimorare in compagnia di altre anziane in un luogo sperduto sulle montagne!”.

Comunque, la pizza secondo lui faceva schifo, oppure era grandiosa solo perché era appunto gigantesca, ma rappresentava il patimento della fame, e della sua soddisfazione, una perdita di tempo che passa sterilmente, come il quadro dell’angoscia – così espose e me lo mostrò – che era appeso in veranda accanto alla lavatrice. Un quadro colossale, rosso con vari schizzi bianchi.

Cosa ritraeva?! Era un cerchio con una linea rosa all’interno, l’uomo prigioniero della sua inquietudine, e tutto intorno una pianura arida. In alto a destra uno schizzo perpendicolare, pure rosa, l’anima che evade dalla sofferenza e cerca di raggiungere Dio o il totem, con fatica, in un cammino solitario. L’ingegnere era un genio! Lo salutai, diedi un’ultima occhiata al quadro del vestibolo, con la sua nave simbolo di un postribolo, e tornai al mondo reale.

Come finisce questa narrazione?

Beh, noi lo sappiamo, finisce male, come sempre. Perché da qualche parte c’è sempre un manipolatore che reimposta il sistema.  

“La comandante non subirà alcuna pena, e gli unici ad essere tormentati saremo noi che dovremo sorbirci per giorni e giorni, mesi ed anni la sua faccetta da bambina viziata e viziosa in tutti i telegiornali e in ogni talk show, dove sarà osannata quale intrepida, ardita, gagliarda, invincibile, e pure bellissima eroina. 
Bertold Brecht, suo connazionale, disse: “Beato quel popolo che non ha bisogno di eroi”. Io aggiungerei: “Miserabile quel popolo che ha bisogno di falsi eroi.”
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Joe Oberhausen-Valdez

Ringrazio il colonnello Nicola Furia (Salvino Paternò) per il cameo finale.

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