Racconti


Ero in visita con due amiche in una città meravigliosa, che fino a quel momento ci aveva stupite per la sua bellezza, arte e cultura. Ma ora anche la gente: calorosa, ospitale, e prodiga di consigli per noi turisti.

Seguendo uno di questi, infatti, eravamo giunte al monastero sulla collina. Ci avevano detto che presso questo antico chiostro ristrutturato avremmo trovato delle stanze a poco prezzo, in cui soggiornare, ed un ristorante ben servito e dall’ottima cucina tipica.

Sin dalla strada sottostante l’altura, si scorgeva l’imponente struttura. Le bianche mura, massicce, dalle piccole finestre, che come occhi curiosi si affacciavano sul promontorio sino ad accoglierne in un solo sguardo tutta la conca sottostante.

Una dominanza dall’alto che incuteva timore e rispetto.

Seguendo il navigatore, la mia piccola auto si era arrampicata per impervie stradine di montagna. Ci avevano detto che raggiungere il luogo sarebbe stato semplice ma evidentemente il malefico aggeggino elettronico aveva deciso di farci battere una via, forse più breve, ma assolutamente scomoda. Sudavo freddo mentre nel buio di quella calda sera estiva affrontavo a non più di trenta chilometri orari le strette curve che conducevano al convento. L’illuminazione era insufficiente ed ero costretta ad utilizzare gli abbaglianti per evitare di finire contro il fianco della montagnola. Pregavo silenziosamente di non imbattermi in un’altra auto che procedesse nel senso inverso; non c’era posto per due vetture in quella specie di serpentina poco più larga di un metro.

Finalmente giungemmo a destinazione e le mie amiche esplosero in grida di giubilo alla vista della chiesa antistante il monastero. In effetti la struttura dallo stile romanico era affascinante e trasudava storia, ma su di me non ebbe lo stesso effetto che aveva avuto sulle mie amiche. Io la trovavo un po’ inquietante. Forse il fatto che non ci fosse anima viva attorno, e che l’illuminazione fosse scarsa, contribuiva a farle assumere un aspetto un po’ lugubre. Non potevo dire di non sentirmi in parte affascinata anch’io. Percepivo anche che qualcosa non mi piaceva…

Ci dirigemmo verso l’entrata, seguendo le indicazioni delle frecce. L’illuminazione lasciava a desiderare e cominciavo a credere che sarebbe stato meglio prenotare un B&B su internet, piuttosto che affidarci ai consigli della gente del posto… quando, giunti su uno spiazzo, ci trovammo ad osservare un panorama mozzafiato sotto di noi: la conca d’oro di Palermo, in tutto il suo splendore notturno e ingioiellato attirò i nostri sguardi e mi fece dimenticare il resto.

Colpite da cotanto splendore, le mie amiche, appassionate di fotografia, si lanciarono alla ricerca dello scatto perfetto allontanandosi alla ricerca della migliore angolazione.

Tentai di seguirle, ma al buio inciampai ed il tacco della mia scarpa si infilò in una fessura sul pavimento. Incastrandomi. Mi abbassai per cercare di liberarmi. Sudavo nel tentativo di tirar via il tacco finché non mi decisi a sfilare il piede dalla calzatura e, successivamente, mi chinai per liberare la scarpa.

Riuscii nel mio intento, e grondante sudore mi rialzai. Delle mie amiche non c’era più traccia ed io rimasi sola nel piazzale poco illuminato.

Rimisi la scarpa al suo posto, e avendo scorto poco lontano una robusta porta in legno a due battenti mi ci diressi a passo svelto. Sperando di aver individuato l’entrata mi ci fiondai col respiro un po’ ansante.

Bussai utilizzando il robusto e pesante batacchio di metallo, chiedendomi se lassù la tecnologia moderna ed i citofoni fossero mai arrivati. Probabilmente no ma, dopotutto, anche quello faceva parte del fascino antico del luogo…

Nell’attesa che qualcuno si decidesse ad aprire mi guardai attorno e fui colpita da una specie di porticina nel muro che vidi qualche metro più in là della porta. Sembrava l’entrata di una specie di montacarichi. Incuriosita mi ci avvicinai. Era uno sportello di pesante metallo arrugginito, tutto intagliato e al centro di esso, con la tecnica dell’altorilievo si leggeva una scritta BREFOTROFIO.

Corrugai la fronte. Non avevo mai sentito questo nome. Chissà a cosa serviva quella specie di sportello metallico. Allungai una mano verso un anello laterale che aveva tutte le sembianze di un maniglione e provai a tirare… non appena lo toccai successero due cose. Innanzitutto nonostante fossimo al quindici di luglio e la serata estiva fosse molto calda ed afosa la maniglia era fredda, non appena la toccai un senso di gelo mi si irradiò alla mano e lungo il polso, come se avessi toccato un pezzo di ghiaccio e poi, nello stesso istante in cui mollai il maniglione, sorpresa dalla sua temperatura, avvertii un lamento. Mi guardai attorno perplessa ma il suono era stato talmente vago da impedirmi di distinguerlo bene. Feci un passo indietro.

Lo sportellone era ancora là, con la sua incisione centrale. Ma io non avevo più voglia di toccarlo.

In quel mentre mi sentii chiamare, erano le mie amiche che, accompagnate da un monaco anziano, erano venute a cercarmi, per portarmi alla reception. Mi affrettai ad avvicinarmi a loro lasciando il portellone alle mie spalle, con la sua scritta sconosciuta. Brefotrofio… chissà cos’era, non lo avevo mai sentito nominare. Forse, più tardi, avrei cercato su internet il significato.

Il monaco che aveva accolto le mie amiche era anziano, ma agile, aveva una robusta barba bianca ed il capo lucido e scoperto dalla calvizie. Parlava poco ma aveva uno sguardo vivace e intelligente. Ci portò fino alla reception dove ci affidò alle cure del direttore della struttura che, contrariamente a quanto mi aspettavo, non era un monaco ma un distinto signore di mezza età con la divisa da direttore di un albergo. Il monaco con un cenno del capo si allontanò, non prima, però, di avermi lanciato uno sguardo strano. Lo identificai come un’occhiata incuriosita ma dietro di essa lessi un’altra espressione meno chiara. Sembrava, guardingo… L’ombra nei suoi occhi fu però troppo rapida perché potessi identificarla più chiaramente. Il monaco si allontanò velocemente lungo un corridoio e sparì alle nostre viste senza guardarsi indietro.

Il concierge ci registrò, ci consegnò le chiavi delle camere e chiamò un ragazzo perché ci aiutasse con le valigie… Il giovane aveva un aspetto pulito e ordinato ma un modo di fare molto schivo e riservato. Non ci rivolse né una parola né un sorriso, prese i nostri bagagli e ci accompagnò alle stanze, che si trovavano al terzo piano, attraverso un vetusto ascensore metallico.

Le mie amiche erano eccitatissime da ciò che le circondava, parlottavano febbrilmente e scattavano foto, entusiaste. Abitualmente sarei stata altrettanto partecipe alla loro eccitazione, essendo una patita di storia ed antiche costruzioni, ma l’esperienza avvenuta all’esterno mi aveva instillato una certa inquietudine che mi era rimasta incollata addosso. Non avevo nemmeno raccontato loro cos’era successo vicino allo sportellone metallico. Non ero abbastanza sicura che fosse accaduto realmente e non solo nella mia testa sovraeccitata. Temevo che mi avrebbero presa in giro.

Le camere che ci erano state destinate erano pulite e confortevoli, nonostante fossero arredate in maniera semplice e spartana e le finestre fossero piuttosto piccole. Le dimensioni lasciavano a desiderare ma probabilmente erano state ricavate dalle antiche celle destinate ai monaci perciò non potevano essere dell’ampiezza tipica degli alberghi per turisti. Purtroppo non avevano camere triple perciò lasciai la camera doppia alle mie amiche e presi la singola, che era ancora più striminzita della doppia ma fortunatamente io non avevo mai sofferto di claustrofobia.

Mentre sistemavo i miei bagagli e toglievo i piedi doloranti dalle scarpe col tacco, lo sentii di nuovo… quel verso, quella specie di lamento… Mi bloccai all’istante guardandomi attorno.

Corsi alla piccola finestra sul muro di fronte e tentai di aprirla per guardare di sotto. Nulla, era bloccata. Mentre cercavo di sbloccarla udii di nuovo quel suono e finalmente mi parve più nitido e comprensibile. Si trattava di un pianto, il lamento di un bambino o forse di una donna e sembrava provenire dal piano inferiore, proprio dal versante su cui avevo visto lo sportello metallico con la scritta brefotrofio. Brividi ricoprirono il mio corpo nonostante il caldo. Smisi di cercare di aprire il battente e feci un passo indietro, mentre tendevo le orecchie in ascolto di quel suono così inquietante e, allo stesso tempo, triste…

– Cate, sei pronta? Vorremmo scendere di sotto ad esplorare un po’- Gabry era entrata in stanza dopo avermi chiamata un paio di volte, senza ottenere risposta. Mi girai verso di lei con un sorriso forzato. –Caspita che faccia hai! Ti senti bene? – mi chiese, sollecita.

– Sì, sì, sto bene, sono solo un po’ stanca e forse mi serve un po’ d’aria fresca… – mentii spudoratamente.

– Allora vieni di sotto con noi, qui dentro si soffoca, le stanze sono troppo piccole.

Acconsentii alla proposta e la seguì, più per non rimanere da sola che per una reale mancanza d’aria, anche se, in effetti, sentivo un po’ il fiato corto. Il pianto, nel frattempo, sembrava essersi dissolto… ma io ne sentivo ancora l’eco nella mia testa.

Scendemmo al piano terra dal solito ascensore cigolante, scherzando tra noi sul fatto che i rumori che produceva ricordasse un film horror. Mi unii alle risate e cercai di ironizzare anch’io tentando, così, di scacciare il gelo che sentivo addosso.

– Quaggiù fa freddo, eh? – domandò Gina, indicando i brividi sulle mie braccia – l’ho notato anche prima, a questo piano sembrano esserci almeno cinque gradi di meno, alleluia, ci voleva proprio dopo la canicola di oggi!

Non condividevo il suo entusiasmo ma mugugnai qualcosa di affermativo, sollevando un angolo della bocca nell’imitazione di un sorriso.

– Da questa parte. Venite a vedere che meraviglia! – Gabriella richiamò la nostra attenzione, invitandoci a raggiungerla attraverso un’alta porta-finestra a vetri.

Anche io e Gina attraversammo l’uscio e ci ritrovammo in un bellissimo chiostro all’interno del monastero.

– Se solo fosse illuminato, così non possiamo esplorarlo! – si lamentò Gina. In effetti il chiostro era privo di illuminazione, tutti i faretti erano spenti ma anche al buio si potevano notare gli intarsi preziosi che ornavano i corridoi e le colonnine e la vegetazione rigogliosa che si trovava nello spazio centrale.

– Non importa, io vado lo stesso ad avventurarmi – affermò Gabry, un attimo prima di inoltrarsi nel buio facendosi strada con la luce del cellulare.

Gina mi guardò sollevando le spalle e la seguì accendendo anche lei la luce del suo smartphone.

Mi apprestai a seguirle quando avvertii ancora una volta il pianto di prima… mi bloccai, tesa, in ascolto. Il suono era nitido questa volta e mi stupii che non lo avvertissero anche le mie amiche…

– Gina, Gabry, avete sentito? Dove siete? – chiamai con voce tremante, ma avevo perso di vista le ragazze e non ne scorgevo nemmeno i fasci di luce.

Rimasi ferma, indecisa su cosa fare o quale direzione prendere quando il pianto si ripeté nuovamente, più forte, più nitido e più vicino di prima. Decisi di seguirlo…

Accesi la torcia anch’io e mi diressi verso il primo corridoio di destra, esplorando in tutte le direzioni e strizzando gli occhi per vedere oltre il buio della sera. Mano a mano che avanzavo il suono si faceva più forte. Deglutii ma non mi fermai, nonostante mi tremassero le mani e le gambe. La curiosità era più forte della paura. Nel frattempo la sensazione di freddo aumentava e mi passai le mani lungo le braccia gelide nel tentativo di scaldarle.

Giunsi alla congiunzione del secondo corridoio ma, prima di svoltare, il lamento si trasformò e distinsi chiaramente il vagito di un neonato. Mi fermai sorpresa e girai su me stessa per guardare il muro alla mia destra. Di fronte a me c’era un portellone metallico intagliato, identico a quello che avevo visto sull’esterno del monastero e anche su di esso era incisa la scritta Brefotrofio ma, a differenza di quello esterno, accanto ad esso c’era una targa metallica su cui c’era una dicitura consumata dal tempo. Mi avvicinai sollevando la luce per leggere meglio… La ruota degli esposti, recitava il cartello mezzo arrugginito. Contemplai la targa, quasi imbambolata, per qualche secondo, finché lo strillo di un bambino non mi fece sobbalzare.

Persi la presa sul cellulare che finì rovinosamente a terra frantumandosi. La luce si spense ed io rimasi al buio…

Il respiro divenne affannoso, non sapevo che fare. Lo strillo del neonato era vicino ma non avevo il coraggio di muovermi. Il petto si sollevava rapidamente per la paura ed il gelo che avvertivo sulle braccia si dipanò al resto del corpo. Tremando, feci qualche passo indietro e a tentoni cercai di raggiungere il muro, lo toccai con le spalle e mi ci appoggiai con tutto il corpo tentando di calmarmi. In quel mentre il pianto terminò, lasciando solo silenzio attorno a me.

Sorpresa dalla mancanza di quel suono imprevisto non mi accorsi di un’ombra che era apparsa vicino a me.

– Ha bisogno di aiuto, signora? – la voce improvvisa mi fece sobbalzare. Strizzando gli occhi cercai di capire di chi si trattasse. Il volto del ragazzo dei bagagli, repentinamente illuminato dalla luce di una torcia, mi colse di sorpresa e lanciai un piccolo grido. Mi era comparso dinanzi il suo volto diafano come quello di un fantasma e la mia mente sovraeccitata aveva fatto il resto.

– Mi scusi, non volevo spaventarla, mi chiedevo solo se avesse bisogno di aiuto. Ho notato che era qui al buio tutta sola. Ha perso la strada? – mi chiese con voce preoccupata.

– Grazie mille, avevo… ho rotto il cellulare. Mi è caduto e si è… guastato. Può aiutarmi, può aiutarmi a cercarlo? – Balbettai, confusa e con la voce tremante.

Il ragazzo assentì col capo senza aggiungere altro e con la torcia si chinò in avanti per cercare il mio smartphone. Si abbassò a raccoglierlo non appena la luce illuminò i cocci rotti. In quel mentre, però, si udì di nuovo il pianto, non più nitido come qualche minuto prima ma, comunque, abbastanza udibile. Trattenni il respiro e mi parve di cogliere una certa incertezza nel giovane accanto a me. Non si rialzò immediatamente ma rimase col cellulare in mano per qualche secondo.

– Ha… ha sentito anche lei? – mi costrinsi a chiedergli. Mi voltava le spalle, e senza pronunciare parola si limitò a scuotere la testa. Non era possibile … – Non è possibile che non abbia sentito, è così chiaro che …

– Cate, sei qui! Ti abbiamo cercata ovunque, dov’eri finita? – Gina interruppe le mie domande sopraggiungendo con Gabry e le loro torce in mano. Nella frazione in cui mi girai per risponderle, il giovane si allontanò in silenzio, lasciando i resti del mio telefono poggiati sulla balaustra del corridoio. Lo osservai muta sentendomi frustrata e tramortita… lui aveva sentito! Ne ero certa, ma perché aveva mentito?

– Sto bene, mi si è rotto il cellulare e non trovavo la strada al buio… – stavo mentendo ancora… ma perché non raccontavo la verità?

Tornammo alle nostre stanze in stati d’animo totalmente differenti. Le mie amiche eccitate e ciarliere. Io silenziosa e meditabonda. Sull’uscio delle stanze ci dividemmo ed io mi preparai ad andare a letto e a rimanerci distesa con gli occhi spalancati. Ero certa che non avrei preso sonno ma non avevo alcuna voglia di scendere a cenare. Quando le ragazze vennero a bussare alla mia porta dissi loro che ero troppo stanca per mangiare e lasciai che ci andassero da sole, mentre io mi chiusi in camera ed infilai i tappi nelle orecchie. Nel caso in cui altri lamenti inopportuni avessero deciso di scatenarsi all’interno di quel monastero io non avevo alcuna intenzione di starli ad ascoltare…

Un’ora dopo, mentre io continuavo a girarmi e rigirarmi insonne nel letto, bussarono alla porta della mia camera…

Mi alzai svogliatamente, probabilmente erano le mie amiche che venivano a raccontarmi cos’avessero mangiato, non volevo sentir parlare di cibo…

Aprii la pesante porta di legno e rimasi sbigottita. Di fronte a me avevo l’anziano monaco che ci aveva accompagnate alla reception. Mi sorrideva e su un vassoio aveva una brocca e due bicchieri. Mi feci da parte per farlo entrare ma scosse il capo…

– Non è il caso che entri nella sua camera, signora, ma le ho portato qualcosa da bere nel caso avesse sete.

Sollevai un sopracciglio fissando i due bicchieri con aria interrogativa, parve leggermi nel pensiero.

– Un bicchiere è per l’acqua che può prendere dal lavandino del bagno e l’altro è per il vino – disse, indicandomi il contenuto della brocca – alcune volte è meglio allietare la serata con un sorso di succo di vite, che il buon Dio ci ha donato per mitigare il peso dei pensieri… – aggiunse strizzandomi l’occhio e passandomi il vassoio.

Lo presi in silenzio, ringraziandolo e al contempo domandandomi se avesse poteri di lettura del pensiero. Lui fece un cenno col capo e fece per allontanarsi ma prima che giungesse alla gabbia dell’ascensore tornò indietro… lo guardai incuriosita.

– Un brefotrofio era un luogo pio in cui, in tempi più oscuri di quelli odierni, venivano accolti i bambini non desiderati, frutto di amori illegittimi o di adulterio. Questo monastero, fino a cento anni orsono era uno di quei luoghi pii… i bambini “esposti”, cioè abbandonati, venivano lasciati all’interno di un portellone che conteneva una ruota, la ruota degli esposti. Così che non fosse necessario rivelare la propria identità quando si lasciavano i bambini alle cure delle persone del monastero… buonanotte, signora – senza darmi possibilità di aggiungere alcunché a questa spiegazione non richiesta, si voltò rapidamente e si allontanò nel buio, lasciandomi a bocca aperta.

Continua…

Caterina Schiraldi

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