Racconti

Lentamente l’ombra avanzò verso di me. Sembrava piuttosto minuta. Cosa diavolo era? Si trattava di una bambina, sui sei o sette anni. Lunghi capelli rossi, visetto smunto e occhiaie. Indossava un camicione informe e avanzava trascinando in una mano un cagnolino di peluche. Alzò lo sguardo su di me e mi fece gelare il sangue nelle vene. Sollevai una mano in un gesto che voleva essere un invito a non temere ed in quel momento la bambina lanciò un urlo acutissimo che mi trafisse le orecchie, si voltò e scappò via.

Rimasi imbambolata per qualche istante, poi spinta da qualcosa che nemmeno io capivo, le corsi dietro…

Correvo alla cieca, non la scorgevo più nel buio del cortile che mi circondava ma sentivo sempre quel lamento, quel pianto disperato che avevo ascoltato terrorizzata provenire dal portellone metallico, ma non riuscivo a distinguere null’altro, eccetto il buio.

All’improvviso sentii una corrente d’aria fredda provenire dalle mie spalle. Feci giusto in tempo a scartare di lato, prima che un ragazzino sui tredici anni comparisse sfrecciandomi dinanzi ed evitandomi per un soffio. Correva come se avesse il demonio stesso alle spalle era pallido e pelle e ossa e negli occhi lo sguardo inequivocabile della paura. Si precipitava in avanti lanciando sguardi terrorizzati dietro di sé e poi, così come la bambina prima di lui, scomparve nel buio.

Una scarica di adrenalina mi corse nelle vene. Brefotrofio. La parola mi balzò alla mente come uno schiocco di frusta. Mi portai le mani alla fronte dolorante stringendo gli occhi.

Percepì la presenza prima ancora di guardare, attorno a me c’erano diverse ombre, sollevai lo sguardo lentamente, lasciando ricadere le mani ed incontrai almeno una dozzina di paia di occhi che mi fissavano… erano tutti bambini, di svariate età ma non più grandi dei quattordici anni, mi parve.

Indossavano abiti umili, semplici e spesso rammendati in più punti. Erano magri quando non erano addirittura emaciati ed avevano tutti quanti lo stesso sguardo negli occhi… tristezza, mescolata a paura.

Mentre li osservavo impietosita si girarono insieme verso un punto alle loro spalle e, alzando contemporaneamente le mani pallide, indicarono il portellone metallico alle loro spalle… la ruota degli esposti… feci qualche passo in avanti per avvicinarmi e loro si aprirono in due ali per lasciarmi passare. Lentamente mi accostai allo sportello, deglutii, mi feci coraggio e afferrato l’anello gelido tirai… Il grido di un neonato mi perforò i timpani e coprendomi le orecchie mi svegliai…

Mi alzai di scatto dal letto sbarrando gli occhi nel buio. Avevo il respiro affannoso ed ero madida di sudore ma, anziché sentire caldo, avvertivo il gelo addosso. Allungai il braccio per accendere l’abat-jour sul comodino e la luce invase la stanza. Voltai la testa freneticamente da un lato e dall’altro ma tutto era a posto, tranquillo e normale. Si sentiva solo il suono dei miei respiri corti nel silenzio totale della notte. Mi allungai per controllare l’ora sul display mezzo rotto del cellulare. Erano le tre di notte e tutto era tranquillo…

Feci un respiro profondo per calmarmi e lentamente rilasciai andare il fiato. Poi mi alzai per prendere il bicchiere dal vassoio e bere un po’ d’acqua. Mi diressi in bagno a piedi nudi tentando di scaricare il nervosismo a contatto col pavimento fresco. Aprii il rubinetto e riempii il bicchiere fino all’orlo.

Stavo per poggiare il bicchiere quando questo mi scivolò di mano andando a schiantarsi in mille cocci per terra. Feci un balzo indietro e nel piede nudo si conficcò un pezzo di vetro, proprio sotto il tallone… Quando avevo alzato lo sguardo avevo visto un’immagine allo specchio, era durata una frazione di secondo e poi era scomparsa, ma mi era proprio sembrato di vedere il riflesso della ragazzina del mio incubo.

Mi chinai sul piede dolorante e sanguinante per cercare di estrarre il frammento di vetro senza far troppi danni, per fortuna il coccio era piuttosto grande e si sfilò subito e la ferita sembrava essere superficiale. Faceva un male cane ma perdevo poco sangue.

Mi rialzai, facendo attenzione a dove mettevo i piedi ma la curiosità di guardare un’altra volta nello specchio era irresistibile. Lanciai un rapido sguardo. Non c’era nulla riflesso, eccetto la mia immagine semi chinata ma, c’era qualcos’altro, che mi trasformò in un blocco di ghiaccio.

Lo specchio era leggermente appannato e proprio al centro era comparsa una scritta che sembrava fatta con le dita, “esposti”, diceva…

Col fiato nuovamente teso mi fiondai in camera, cercando di evitare il vetro rotto sul pavimento. Dietro di me lasciai alcune tracce di sangue dal tallone ferito. Presi gli abiti del giorno prima che avevo accuratamente piegato e lasciato sulla sedia vicino al letto e mi vestii rapidamente. Non sarei rimasta neppure un altro minuto in quella stanza ed in quel posto. Io non ero una cazzo di eroina coraggiosa e stupida di un film horror e me la stavo facendo letteralmente sotto per la paura. La necessità di correre in bagno ad evacuare era fortissima ma non mi sarei lasciata rallentare. Prima lasciavo quel posto e poi avrei pensato ad altri bisogni.

Afferrai per ultimo il cellulare e provai a chiamare le mie amiche, sperando che avessero tenuto i propri telefoni accesi durante la notte… Nulla, erano entrambi staccati. Incoscienti! Pensai mentre mi slanciavo di corsa fuori dalla stanza per andare a bussare all’uscio della loro…

Ma qualcosa, anzi, qualcuno, mi impedì di farlo… la ragazzina dai lunghi capelli rossi e dagli abiti lisi e informi era ferma davanti alla loro stanza e guardava verso di me. Arretrai con un balzo verso il muro. Il piede ferito mandò un lampo di dolore. Lo ignorai, ero paralizzata dalla paura e non ebbi nemmeno la forza di gridare.

Rimasi a fissare la ragazzina negli occhi per qualche secondo e ad un certo punto, mentre lei appuntava il suo sguardo spento e triste dentro i miei, qualcosa cambiò… la paura passò in secondo piano ed un sentimento diverso mi avvolse. Tristezza!

Sentivo una profonda e schiacciante malinconia invadermi il cuore. Mi si riempirono gli occhi di lacrime ed a quel punto la bambina di fronte a me alzò la mano ed indicò il corridoio dietro di sé, poi si allontanò verso le scale. Mi stava chiedendo di seguirla ed io, irrazionalmente ed incredibilmente… lo feci.

Come nel mio sogno, qualcosa mi spingeva a seguirla e scesi per i tre piani sottostanti standole a qualche metro di distanza. Lei camminava rapidamente, con i suoi passetti piccoli e silenziosi, tenendo stretto in una mano il cagnolino di peluche. Non guardò mai verso di me. Mi accorsi solo allora che anche lei era a piedi nudi.

Scendemmo fino alla reception che a quell’ora era deserta, le passammo dinanzi e giungemmo al portone di legno a due battenti da cui la sera prima ero entrata con le mie due amiche. La bambina a quel punto si fermò, si girò verso di me, indicò col dito teso verso il portone, quindi… scomparve.

Rimasi imbambolata a fissare il vuoto per qualche secondo fino a che il battente si aprì lentamente dinanzi a me. Deglutii ma non mi fermai. Lo oltrepassai, scesi gli scalini e mi fermai nuovamente, non sapendo cosa fare. La ragazzina era sparita.

Poi, lo sentii… quel lamento, quel pianto che mi aveva ossessionato fin dalla sera prima, il vagito disperato di un neonato. Sapevo da dove proveniva. Tutto era partito da là e mi diressi a passo svelto, stavolta, verso il portellone metallico intarsiato che avevo visto quando ero giunta al monastero. Il portellone era là, chiuso come sempre, sembrava mi attendesse. Il pianto si andava via, via spegnendo… era sempre più flebile e infine ammutolì.

Come un automa allungai il braccio verso l’anello metallico del portellone. Era sempre gelido ma lo strinsi ugualmente. Tirai verso di me ed il portellone, cigolando sui cardini, si aprì… all’interno di esso c’era una specie di disco rotante su di un asse, era largo circa sessanta centimetri ma la cavità all’interno era piuttosto profonda. Posai una mano su quel disco rotante e lo feci girare… lentamente, spostandosi attorno al suo asse arrugginito, la ruota girò, passò qualche secondo prima che compisse una piroetta completa e poi all’interno comparve qualcosa… mi avvicinai per guardare meglio. Era un libro, un tomo rilegato in pelle, vecchio, consunto e ingiallito. Lo presi lentamente in mano, temendo che si sfaldasse davanti ai miei occhi e lo aprii…

All’interno c’erano due colonne di date e, in direzione di queste, dei nomi… davanti alla prima colonna c’era una lettera “E”, davanti alla seconda una lettera “C”. Questi dati ricoprivano il libro dalla prima all’ultima pagina ed il tomo era alto circa sei, sette centimetri. Sulla prima pagina c’era semplicemente scritto “i bambini perduti”.

 Mentre sfogliavo il registro, perché chiaramente di quello si trattava, di un albo dei bambini che erano stati depositati lì dentro, il pianto ricominciò…

Guardai verso il portellone ancora aperto e sobbalzai per la sorpresa… dentro la cavità c’erano rannicchiati, stretti, stretti, diversi bambini, esattamente gli stessi che erano comparsi anche nei miei sogni e tutti mi fissavano. In prima fila c’era la ragazzina dai capelli rossi, sul suo visetto pallido scendevano delle lacrime. Piangeva, piangevano tutti.

Il mio cuore perse un battito e feci qualche passo indietro senza staccare gli occhi dal portellone… indietreggiando andai ad urtare contro qualcosa, anzi, contro qualcuno…

Due mani fredde mi afferrarono e sostennero dai gomiti prima che, perdendo l’equilibrio mi schiantassi per terra. Mi volsi a guardare il mio “salvatore” e mi trovai di fronte al giovane facchino…

Mi fissò per qualche istante in silenzio. Io avevo perso la voce. Poi indicò con la testa verso il portellone.

– Vogliono che lei scriva di loro, vogliono che indaghi e renda loro giustizia… – mi disse a bassa voce, quasi sussurrando, – e vogliono che renda pubblico ciò che scopre.

Mi costrinsi a rispondergli, – come lo sa che vogliono questo e come posso farlo io? Non sono nessuno!

-Loro sanno…

– Sanno, cosa?

– Che lei scrive e che conosce gente che può aiutarla ad indagare, come il marito della sua amica… – spiegò lasciandomi di sasso. Come sapeva queste cose quel ragazzo?

-Lo so, perché anche io li ho sognati, e so di lei perché anche lei mi è parsa in sogno e loro mi hanno spiegato tutto… – aggiunse, quasi leggendomi nel pensiero.

Scossi la testa confusa. – Ma cosa gli è successo, esattamente?

– I bambini perduti, così chiamavano i bambini che venivano messi nella ruota degli esposti, entravano in monastero perché abbandonati dalle proprie famiglie che si vergognavano delle origini dubbie della loro nascita. Erano tutti figli illegittimi, spesso derivanti da adulterio o talvolta da stupri, – cominciò a raccontare – venivano posti in questa ruota così che i monaci non potessero vedere chi ve li deponeva e chi li portava manteneva il proprio anonimato. I bambini arrivavano qui infanti ma poi lasciavano il monastero per ragioni diverse, sul registro la “E” indica la data di esposizione, la “C” quella di cessione…

– Ceduti a chi? – chiesi mio malgrado curiosa.

– In genere e per legge dovevano essere ceduti a famiglie adottanti. Di solito, ma…

Si interruppe e fissò l’interno della ruota. Mi girai anch’io, i bambini non c’erano più, tranne uno, anzi, una… la bambina dai capelli rossi continuava a fissarmi con gli occhietti pieni di lacrime… emerse dalla botola tirandosi dietro il suo pupazzo logoro, lo abbracciò teneramente per un attimo socchiudendo gli occhi e poi lo tese verso di me. Istintivamente allungai un braccio per prenderlo ma le mie mani si strinsero sul vuoto. Nello stesso istante, però, la bimba scomparve e nella mia mente esplosero una serie di immagini confuse. Vidi infanti abbandonati, bimbi piangenti, monaci incappucciati che attendevano qualcuno nell’ombra. E ancora, rapidamente, scorsero le immagini di scambi di banconote, di bambini urlanti e trascinati via, di percosse, di grida disperate e poi di lapidi… lasciai ricadere la mano come se fossi stata ustionata. Mi portai la stessa mano al capo confuso…

Il ragazzo, intanto, mi fissava in silenzio. – Alcuni di quei bambini non sono stati semplicemente allevati qui fintanto che sono cresciuti abbastanza per andar via da soli o non sono stati adottati… – spiegò dopo un po’, con voce ancora più flebile, – alcuni di loro sono stati venduti, a famiglie facoltose o a chi lo richiedeva e hanno visto le pene dell’inferno. Se erano fortunati venivano soltanto percossi, altre volte … – si interruppe per qualche secondo, – altre volte i loro corpi venivano usati per altri scopi, tanto non li avrebbe reclamati nessuno, erano solo bimbi perduti… 

– Stupri? – mi costrinsi a chiedere col fiato mozzo.

Assentì col capo – o peggio … – aggiunse con le lacrime agli occhi.

– Peggio?

– Venivano utilizzati come donatori di organi – puntualizzò facendomi salire istantaneamente la nausea.

– Come? Come sai queste cose? – gli chiesi balbettando.

– Sono un discendente di uno di quei bambini, fin da tenera età sono stato tormentato da sogni ed immagini di bambini urlanti e maltrattati, ma solo quando sono venuto a lavorare in questo monastero ho capito il perché… – con un cenno del capo indicò il registro che era ancora tra le mie mani, – là dentro ho trovato il nome di mia nonna e da quel momento ho cominciato ad avere sogni sempre più chiari e ricorrenti finché non mi sono informato, finché non ho indagato e finché non è arrivata lei.

– Come hai fatto ad indagare? Chi ti ha rivelato queste cose?

– I sogni e… padre Francesco – mi spiegò che il monaco anziano ma agile che era stato gentile con me era anche lui un discendente di uno di quei bambini, uno di quelli fortunati, però. E che era l’unico che aveva avuto il coraggio di dargli quelle informazioni che cercava e che si era esposto…

-La prego, ci aiuti! Racconti questa storia, indaghi e renda giustizia a questa vicenda e a quei bambini! – mi implorò con voce improvvisamente più forte e accalorata, – persino padre Francesco ha fiducia in lei!

Scossi il capo per schiarirmi le idee. Chissà cosa ne sapeva di me questo monaco… però il suo sguardo acuto mi aveva fin da subito colpito.

– Si solleverà un bel vespaio, ci troveremo contro forse anche la Chiesa, non so se ne sono in grado e se qualcuno avrà il coraggio di aiutarmi…

Sul viso del giovane comparve, per la prima volta da quando l’avevo conosciuto, un mezzo sorriso, – io credo proprio che lei abbia almeno due amici abbastanza folli da aiutarla…

– Gina, Gabry ho bisogno dell’aiuto dei vostri mariti… solo loro possono dirmi di sì! Sono entrambi sufficientemente pazzi da voler rischiare con me, posso chiamarli? – chiesi alle me amiche il giorno successivo, dopo aver raccontato loro tutta la storia.

Le ragazze si guardarono in faccia un attimo. Forse pensavano che fossi pazza, dopotutto l’intera questione era una follia, una specie di sogno ad occhi aperti e non avevo alcuna prova di ciò che mi era successo…

Ma ognuno di noi ha gli amici che si merita, evidentemente e senza aggiungere alcunché Gabry mi tese il telefono, facendo un cenno di assenso ed un sorriso di incoraggiamento. Se pensava che fossi pazza era comunque disposta a darmi una mano.

 Afferrai il cellulare con un sorriso riconoscente e digitai il numero…

– Joe, sono Cate! Chiama Nick, ho bisogno del vostro aiuto…

– Certo, rimbambita! Dammi il tempo di finire di fumarmi la pipa e portare fuori i cani che lo chiamo…

Chiusi la conversazione, non era necessario aggiungere altro. I bambini perduti presto avrebbero avuto la loro giustizia.

Sentii, in lontananza, quella che mi parve la risata di un bambino, o una bambina…

Caterina Schiraldi

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