RaccontiRacconti brevi

Finiva l’estate, il cielo oscurato sembrava tuonare.

Almeno così credeva un amico, ed io gli risposi: “tranquillo, sono cannoni!”.

Nessuno uccide l’Uomo nero. È l’ignoto, l’imprevisto, l’inatteso, quel che di spaventoso riponiamo nell’angolo più lontano della nostra esistenza. E invece “Esso” è in prossimità, vicino, vicinissimo, è dentro la nostra angoscia.

L’ispettrice era un terremoto, un’eruzione, una locomotiva diesel, sicuramente una bella ragazza, una donna solare, sorridente, e assai loquace. Appariscente, sensuale come la primavera. Aveva gli occhi intensi e accesi, arpionavano e dissolvevano.

Splendide forme ineccepibili, ignee, fluide e sprezzanti. Capelli ondulati tremolanti e ancor più avvolgenti. Viso che era idealità radiosa.

Se non avessi la certezza di comunicare qualcosa o di compenetrarmi con chi legge, non troverei appagamento. Desisterei. Dipende sempre da uno scambio reciproco. Ci si ammala comunemente, di una simbiosi che ingloba, fluttua e attanaglia. Una sinfonia, non un assolo.

Siamo delicatamente complessi, alle soglie di un’estate che ci lascia alle spalle con la salsedine nel cuore.

La compenetrazione avviene anche nel silenzio con tutto ciò che ci circonda. Ci si “ammalia” comunemente… con arti magiche, non con la verità. Essa è oscura agli occhi. È un’immersione.

Immersione da prora a poppa, e assimilazione, ossia tutto ciò che avvolge e distende, un’estasi che travolge. Una faccia dell’evidenza, della verità molteplice, una maschera, o spesso un copione, l’apparenza che prende la forma adatta alla circostanza, al luogo, difesa e attacco per la gente, sempre elemento deleterio, estraneo e ostile. Ma anche necessario.

Quel che è magico dura un attimo, è l’istante transitorio che appunto inebria, trascina, seduce, innalza e passa. Fortunatamente è un vortice che ritorna.

Ciò che appaga è sempre effimero.

Ma in quel preciso istante diviene reale, eterno ed intramontabile.

Ella era impregnata dalla nostalgia che trasmetteva questo mese. Ma l’autunno non è per forza malinconia, anche se uno la percepisce a volte come inquietudine a volte come ristoro.

È il momento in cui si concentrano tutte le cose che poi rimandiamo a dopo il frinire della cicala, o il canto della sirena.

È una stagione che se ne va come se non fosse mai passata, o come non fosse mai stata.

Ed ecco la rinascita, un ridestarsi, una tappa in cui si pensa all’anima e meno al corpo, anche se il corpo è tutta l’anima, l’essenza, la benzina da cui il corpo detona, mai scindibile dal furore che avvampa dai sotterranei dietro lo sterno.

Quel che si introduce attraverso lo spirito è qualcosa che stimola, che pompa sangue a dismisura nelle arterie, nel petto, in ogni anfratto più intimo, ossia più intenso.

L’attimo è tutto, l’attimo sconvolge e disseta, o coinvolge e infiamma, talvolta distrugge, atterrisce e atterra. Strugge e attira nel momento in cui si insinuano la volontà e la scelta, la ragione e anche l’istinto che terrifica. L’istinto, la prima forma di razionalità atavica di cui siamo stati forniti dal caos. E quindi la ragione va a farsi fottere.

È la mente viaggiatrice che coinvolge molto. Ciascuno forse rappresenta solo un vettore… che comunica all’anima e l’anima poi comunica ciò che ha sentito.

Non era un soliloquio ma un dialogo serrato e appagante in una tenda militare nel cuore della notte in una regione colpita da un evento devastante.

Era settembre, la città era stata rasa al suolo da poco, e quel freddo che calava la notte già cominciava ad essere pungente.

Io ritornavo da una ronda a piedi in mezzo alle campagne alla ricerca di un cane che una bambina aveva chiesto incessantemente di cercarle. Ma dopo qualche ora nell’oscurità tra la nebbia fittissima persi di vista la pattuglia, e mi trovai solo senza neanche l’ombra del cane che cercavamo.

A stento riuscii a rintracciare la strada di campagna che mi condusse in una frazione di quel paese, dove scorsi qualche tenda, non di certo della protezione civile, ma sempre di fattura militare. Almeno così mi sembrava tra la foschia.

L’ispettrice si era persa anche lei. Non ricordo cosa cercasse, dove fosse andata, probabilmente me lo disse, di sicuro non prestai molta attenzione al suo racconto. So solo che appena si accorse del rumore della mia presenza iniziò a vociare, ed ebbra, in un delirio mistico, febbrile tramutò gli strilli in un canto possente e lirico.

Quella voce così portentosa, formidabile, ammaliante, trascinante, mi guidava nel buio tra i ripari di un fuoco che avrei acceso io di lì a breve, un fuoco che lei stessa mi avrebbe propagato, come poi compresi l’indomani mattina.

La tenda era enorme, buia, forse in realtà non era neanche un drappo o un giaciglio.

Quando accesi la legna e tutto si rischiarò, ebbi come l’impressione che fosse un caseggiato enorme, una villa antica, coi soffitti a volta, un palazzo, un casale sperduto nella sciara, dall’antico vocabolo fiara «fiamma», e financo un bordello, o il regno della dannazione.

Al di là di teli rischiarati da luci soffuse vedevo e sentivo corpi lottare, altri gemevano, guaivano. Alcuni ululavano e mugolavano. Non capivo se fossero cagne o cristiani.

Non era di sicuro un luogo ameno, ma di perdizione. Ma un riparo dal freddo non si sceglie, per cui mi adagiai accanto all’ispettrice, così si evinceva dalla divisa, o quello che era (lei e pure la divisa), che già giaceva vicino alla legna che ardeva.

Le vampate iniziavano a spegnersi, per divenire cenere, come tutto, come il nulla, tutte l’una dopo l’altra. L’oscurità ora avvolgeva i tendaggi tra i quali ronfavano quegli esseri che qualche istante prima copulavano.

Un’entità arcana comprimeva il mio corpo schiacciandolo a terra, fluttuando e dondolandovi sopra, ondeggiando con movimenti sinuosi e armoniosi, altalenando il ritmo in un andamento oscillatorio che ben presto mi portò a essere serrato, trattenuto e avvinto sotto l’efficacia dell’avvolgimento delle sue ali, che sentivo immense. Gli occhi fiammeggiavano, mi penetravano a guisa di raggi che insidiano e abbagliano, trafiggono e quindi accecano.

Era una ridda rasente la terra, tra la polvere vorticosa che si cospargeva ovunque, ci avvoltolava e stramazzava, primordiale e selvaggia; un sortilegio inconsueto che fascinava e saziava. Un tutt’uno che avvolgeva, ansimava, e infine inebriava, distendendo le membra ed ogni altro corpo teso.

Qualcosa di sovrumano mi aveva stregato, possedendomi con un dinamismo trottante e demoniaco. Lo percepivo dagli arti anteriori remiganti, che mi avevano avvolto; lo gustai dalla pesantezza della sua corporeità, dalla sua presenza non solo immateriale.

Apprezzavo e godevo vivo, spietatamente vivo quell’istinto che mi permeava, un istinto che mi avvinceva, che mi sovrastava.

Il terremoto mi sussultava, mi sobbalzava, ed io tremolavo e palpitavo. Ancora una volta.

Ancora una volta la luce del giorno rischiarava le tenebre od ogni altro delirio, che quand’anche magico e ammaliante, sarebbe potuto essere uno smarrimento onirico, sebbene ineffabile, sebbene vaporoso.

Il demonio, o “Lucifera” che fosse, se n’era andato all’alba, che sorgeva iemale, silenziosa e languida.

Un riverbero scintillava, invescava gli occhi, scutrettolando tra le piume di alcuni rami ancora semioscuri.

L’alba radiosa che rinnova.

E, anche se non c’era il sole, giammai potrei dire che non fosse tutto splendente.

Joe

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