Racconti

Era di una dolcezza e soprattutto di una malinconia che attrae, misteriosa e così sensuale da apparire irraggiungibile, sempre lontana e avvolta da un velo che quasi la distaccava da ogni tatto possibile, da sguardi più duraturi e inconcepibili, deliziosi e onirici che fantasticavo eppur desideravo, ardentemente, disperando, e prolungando quell’ansietà e quella gioia che dentro mi straziavano.

Una secolare sete di cercarla, di studiarla, di entrare in lei, che fosse fata, pura carne o un demone selvaggio superbo, ossia un’entità tragica avvolgente e incandescente.

Ella spandeva un desiderio intenso e tormentoso che non si affievoliva, da anni, da anni non mitigava, e giammai scompariva.

Venne il tempo della vendemmia, stagione in cui sapevo avrebbe lavorato ai suoi poderi e alle viti, per produrre quel vino robusto maestoso rosso come il fuoco del suo sangue grifagno, che a suo dire galvanizzava, sangue e vino che avrebbero dato reviviscenza a ogni morto.

Avrei voluto cavalcare verso quei monti solitari e asperrimi, spinosi e impervi, quasi eretti a sua somiglianza, dall’effigie tagliente e implacabile.

Avrei voluta vederla anche da lontano assorta e pensierosa, e sempre bella, quandanche oscurata dalle fronde, intenta a quelle chine, a quelle ore che la travagliavano, cospargendola di sudore e pensieri senza tregua.

La grande paura che mi attanagliava, mi rallentava, e innanzi tutto fermava ogni slancio, l’enfasi dell’entusiasmo, era il timore che lei arrestasse qualsivoglia mio già nato impeto, mitigando e disilludendo desideri evidenti, portentosi, che avevano le sembianze dell’impossibile.

Tutto in lei era davvero extra ordinario, come le dissi, e come comprese: l’eloquente bellezza che mi avvinceva, mi esaltava, scagliandomi in una trionfale elevazione mai assaporata prima, estremo sentore e stimolo che già da tempo avevano vanificato ogni tentativo mai arrischiato nel dimenticarla. Un’opzione vana.

Quegli occhi erano braci, erano brame, erano baci, o forse raffiche che mi attraversavano il petto ansante, e ogni sperduta vena che si saturava di sangue vigoroso e vivo, che voleva sprigionarsi in energia diffusa.

In quelle ore, ella recideva i grappoli di uva, ferendo le mani delicate, voluttuose, inebrianti, fiere, girovagando in quel filare da cui si innalzava un profumo che già sembrava di vino, forte e tormentoso, che presto mi avrebbe sconvolto e placato, come solo lei avrebbe potuto, come solo quella bocca ferina e vermiglia avrebbe potuto deliziarmi, come tutto quel che suggeva.

I suoi capelli voluminosi, luminosi, ondeggiavano sul collo fino alle braccia rosee, scoperte al sole di un autunno caldissimo, a cui esponeva il corpo sinuoso, dominio della meraviglia, la cui contemplazione mi imprigionava, sbattendomi tra discernimenti possenti e la consapevolezza che quella fucina avrebbe sfiorato avvolto e fuso solo uno spirito raro.

Ed ecco che in un istante ero preda di una fascinatrice sanguigna, genuina, ricca e stracarica di forze che dissolvono attraverso i suoi lumi voraci che mutavano lo stato della mia anima, di qualsiasi anima, da inerte a dinamico, in una successione di contrazioni prioritarie, di ritmi inarrestabili, in un moto inesprimibile di sensazioni malinconiche, nefaste, purificatrici come ogni vampa, e nello stesso tempo adorabili. Segni che scavano cicatrici sempre aperte nello spirito che ansima di possedere il desiderio maledetto.

Quello sguardo enigmatico, fatale, il viso orgoglioso che sdegna la mediocrità, quei globi scintillanti, simili a fauci, io veneravo.

Iniziai a scendere col mio irrequieto puledro dal colle, verso la vigna, solo quando mi accorsi che lei ormai sedeva su un muretto di tufo a riposare e degustare pane e racina.

L’avevo già incontrata qualche altra volta, e quindi non fu per lei una sorpresa quando vide che mi avvicinavo solerte e speranzoso. Si alzò da quelle pietre, salutandomi con un sorriso camuffato da stupore, che non capii se fosse delizia o un baratro imminente.

La bocca socchiusa, le labbra incantatrici, i capelli sciolti a coprirle metà viso, discendenti come crini, a coda di cavallo, il petto che si proiettava possente e prosperoso, infine la mano che strinse la mia che l’attendeva, tutto mi sconvolse e mi pulsò.

Già sapevo che nel vederla avrei perduto ogni cognizione di realtà, e difficilmente sarei riuscito a restare sveglio e lucido. Pregustavo infatti da tempo essere divorato da quello sguardo intenso che mi strabiliava, con sgomenti suadenti e pericolosi, con occhiate fisse e interminabili, che mi smarrivano dal luogo, distorcendo il tempo che volava dopo anni di attesa, ossia di agonia.

Quell’attimo che avevo immaginato diveniva vero, seppur fugace, imprevisto, irradiato da un poderoso sole autunnale che non mi accecava come aveva sempre fatto lei, che ora mi arroventava col suo respiro che sentivo imminente, ansimando nella perdizione di due bocche che si cercano, si anelano, si sfiorano, si congiungono per un istinto recondito, che sgorga repentino e tutto l’essere inonda e sbalordisce.

Il suo viso eccelleva fluido fresco ferino, traboccante di vita e giovinezza, furoreggiando con un potere che mi soggiogava, raggiante e avido di inebriarmi in quell’armonia di sapori, che in lei sapevo di poter cogliere come una concentrazione di tutte le estasi più ricercate. L’aura sensuale della voluttà.

Palpitava in me una turbolenza soave, un fragore interiore che lei mi produceva da chissà quante attese, e che ora diveniva ancor più sublime, poiché ella mi consentiva finalmente di viverla, dentro quel fascino che lacerava e mi ricreava.

Mi offrì un bicchiere di vino, già umettato dalle sue labbra ansanti, delle quali assaporai l’ebbrezza, un fluido gustoso che sorseggiai avido e lento, per non dimenticarne la squisitezza, inglobandolo nelle viscere più nascoste e ansiose.

Ella, ebbra almeno quanto me, si alzò carezzandomi la guancia con quelle dita che mi precipitarono in un abisso: lei ora sembrava un’illusione, dalle parvenze confuse, irreale, ma fortemente imperiosa, come una scossa che risveglia o addormenta per sempre.

Era la sua bocca appassionante e succulenta che mi trascinava in un’apoteosi sismica.

Mi risvegliai che sembrava notte solo tra i filari della vigna, che forse davvero apparteneva a lei o al sogno che quel bicchiere di vino mi aveva scaturito sotto forma di idealità suprema.

Ma ricordavo tutto, come se fosse stato davvero un accadimento incontrovertibile, e non lo potevo negare in nessun modo, perché avevo ancora il sapore di quelle labbra indelebili nelle mie, il sentore delle sue mani che mi perlustravano nelle più occulte e indicibili voluttà che il mio corpo aveva espresso avvolto, avvinghiato, ammaliato dal suo.

Sentivo la sua pelle che strisciava ancora calda sulla mia, le sue fusa che non potevano essere simulate, la voce che blandiva calda, sussurrando deliziosa e irripetibile.

Sentivo che quella irraggiungibilità non era un mondo sperduto chissà dove in una volta celeste impossibile da colmare, una distanza farneticante o idilliaca, astrusa e astrale.

Era sempre stata reale, al di là dell’enigma, oltre il labirinto che la circondava, e in cui mi perdevo con animo deciso; una ninfa sensibile, deliziosa e raffinata – lo avevo sempre intuito –, emotiva e sanguigna, solare come la terra in cui aveva visto la luce, quell’isola che infonde ai suoi nativi: magma, bellezza, passione, quella terra che crea una stirpe invincibile, un miscuglio di fuoco e mare, che mai potrebbe cedere alle continue avversità che si perpetuano giorno dopo giorno.

Quel giorno mi avvidi che quegli occhi sempre tristi, immersi nell’infinito, fissi nel vuoto alla ricerca di un mondo scomparso ma giammai perduto, riscaldati dal suo vino che non aveva ancora un nome, si ravvivano, riprendevano vigore, e ridivenivano un sorriso immenso.

Joe Oberhausen-Valdez

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