Racconti

Non era proprio una fortezza grandissima, più che altro un palazzo sperduto su una rupe che si ergeva mirando una delle tantissime vallate dell’entroterra siciliano, immerso tra infiniti vigneti e campi sconfinati. Ma da lì, costruito su una roccia, dominava a trecentosessanta gradi l’intero circondario, fino a dove l’occhio poteva spingersi, poiché non vi erano altre alture in quello spazio silenzioso e immenso.

La costruzione era ormai diroccata, resistevano solo le mura esterne, sulle quali si poteva salir tramite una scala in pietra ancora fruibile, anche se malmessa e pericolosa. Le pareti divisorie interne erano crollate, e pure il tetto, all’interno, distruggendo il piano terreno, riempiendo quel che era stato il sotterraneo, più o meno esteso, di detriti, pietre, e altro materiale similare.

Il desiderio di scendere nel sottosuolo di quel castello mi affascinava da sempre, e un giorno lo avrei esplorato, utilizzando un cunicolo non del tutto ostruito dalle macerie, un passaggio che amici e compaesani conoscevano, ma che nessuno aveva mai avuto il coraggio di percorrere.

Del resto laggiù non ci avrebbero trovato niente, ma io, che avevo la mania dell’oscurità, del pericolo, del rompermi sempre le ossa da qualche parte, non resistevo a quell’attrazione.

Sentivo che laggiù avrei trovato qualcosa. Cosa non sapevo, ma ora posso dire con certezza che la rilevai… davvero.

Il silenzio era interrotto solo dal fruscio degli alberi, da qualche lucertola che strisciava tra l’erba secca; il silenzio era un suono che mi entusiasmava.

Prima di arrivare al castello mi fermai all’abbeveratoio a rinfrescarmi la gola, la lunga salita mi aveva creato una sete indicibile. Nell’acqua stagnante nuotavano varie sanguisughe e una biscia enorme, che se ne scappò solo quando s’avvide che il mulo di un villico si avvicinava per dissetarsi, come me, come il contadino.

Mi chiese che ci facessi lì, e io risposi che ero salito sulla rupe per fare qualche foto al castello. Mi disse solo di stare accura (attento) poiché il caseggiato era pericolante, pieno di serpenti, anche vipere specificò, e di non scendere nei sotterranei perché là dentro ci stava la Biddrina.

Lo rassicurai, non sarei andato in cerca della Biddrina, ma quello non mi credette, e infatti mentivo.

Una leggenda del territorio narrava, o meglio si supponeva che nelle viscere del rudere abitasse quella creatura.

Ma che bestia era?! Certuni dicevano che fosse qualcosa di simile a un coccodrillo lungo quanto un autobus, o forse un serpente lunghissimo, un incrocio tra un drago e un rettile non specificato, insomma un mostro della fantasia popolare, che viveva tra i laghetti di acqua usati per irrigare i campi, o le sorgive di acqua sulfurea, chiamate gebbie. Ovviamente divorava i cristiani.

Alcuni nei loro aneddoti la descrivevano come una biscia qualsiasi, più enorme, cresciuta a dismisura, come anche mi disse con saggezza popolare il vicino di casa, che un giorno nel nostro giardino aveva ucciso ‘nu scursuni (un biacco): “la serpe che si rintana per sette anni al buio, senza vedere mai anima viva, diviene Biddrina.”. In realtà, solo un mostro — questo voleva dire in sintesi — uno spauracchio per i pastori che affogavano nelle gibbie in estate, e soprattutto per i bambini che si spingessero a cercare l’ignoto.

Non ci credeva nessuno alla sua esistenza. Io sì.

Dalla fontana al castello una viuzza stretta tra spine mi portò all’androne del castello. Una grande entrata, con un arco quasi crollato, segnava l’inizio della mia ricerca, da lì in poi sarei stato solo, senza più gli occhi del villico che mi puntavano, con quella testa che abbassandosi e alzandosi voleva dire esplicitamente: “che minchia stai facendo…”.

Ero una testa di cazzo già da giovane, e anche lì, oltre che in miniere, ruderi, e altri luoghi abbandonati, sarei voluto andare, e ci andai.

Il baratro in cui dovevo entrare era sotto la finestra della parete di fronte all’entrata, a sinistra, dotata di una grata arrugginita e inutile. Era una specie di cunicolo, a cui forse si accedeva anticamente tramite una botola di legno che io non vidi, ora cosparso di arbusti, rovi e altre piante spinose in cui mi sarei lacerato.

Puntai la torcia verso il budello del tunnel e scorsi la scala che un tempo avevo intravisto. Tolsi i primi ramoscelli, e cominciai a scendere, illuminando il percorso. Laggiù mi sembrò di scorgere qualcosa, due luci che presto scomparvero, o forse dei riflessi che svanirono non appena ebbi la razionalità di capire che non si trattava di fari, ma di lucicchii incomprensibili o irreali.

Nella discesa mi graffiai le mani e le braccia, perché le spine erano un varco o un ostacolo a forma di reticolato, infine giunsi in un corridoio scavato nel sottosuolo, dal tetto a forma ovale. Lì non c’erano più arbusti ma solo un fetore di umidità e di fogna.

A terra giaceva uno scheletro di una piccola bestia che non seppi riconoscere, a destra e a sinistra languivano a terra porte di legno ormai marce, sdraiate come a voler riposare in eterno all’interno delle stanze a cui erano poste a protezione. Erano tutte vuote, senza finestre, senza grate; forse un tempo ebbero il privilegio di essere celle.

Proseguii lungo il corridoio, che per decine di metri non mi aveva condotto da nessuna parte stimolante, finché la torcia non mi svelò che sempre più in fondo c’era una scala che portava su da qualche parte e giù non so dove. In prossimità di quella costruzione mi accorsi che i gradini per salire erano bloccati da calcinacci, mentre quelli che portavano abbasso erano percorribili, almeno fino alla curva destrorsa che anche dalla mia posizione si vedeva.

La scala non era ostruita, potevo continuare la mia avventura verso il budello del castello. Scendendo non incontrai altri piani da potere visitare, e quei gradini mi diedero l’impressione che fossero infiniti. Il silenzio era inenarrabile, come il puzzo che non smetteva mai di terminare; sembrava la putrefazione di quel rudere che esalava dalle sue interiora.

Vi annusavo un sospiro che odorava di vuoto, il nulla a cui accedevo, e più vi sprofondavo più mi creava il presentimento che in quel mondo remoto non avrei trovato altro che polvere. Un’esplorazione inutile, una fatica inane, solo per il gusto dello smarrimento, nella ricerca infruttuosa che ci fosse davvero qualcosa di straordinario nascosto nelle favole e nel buio di un’eternità, che in quel momento credevo davvero senza termine.

E quindi che fare?! Ormai potevo solo proseguire, perché da qualche parte sarei pur sempre arrivato.

E io scendevo scendevo, e mai pervenivo a dissetare le mie aspirazioni. Mi stavo annoiando e anche stancando, pensando che poi avrei dovuto ripercorrere il percorso a ritroso e in salita. Mi fermai un attimo e mi sedetti per circa cinque minuti, dopodiché ripresi a scendere, finché non arrivai davvero da qualche parte. Lì sotto c’era una galleria immensa, larga ma non altissima. Compresi che ero in una miniera di sale.

La luce della torcia non si proiettava abbastanza lontano per potere vedere la parte finale di quel mondo, che sicuramente si estendeva per chilometri e chilometri.

A quel punto che potevo fare? La lampada non aveva energia illimitata, quindi dovevo tornarmene a casa, anche se due batterie di riserva nello zaino le avevo, ma le avrei usate solo per emergenza. Niente Biddrina, e niente di niente, laggiù non c’era anima o animale vivente.

Feci un ultimo giro più avanti nel tunnel e calpestai uno stivale vicino a un piccone, ne trovai un altro più avanti tutto macellato, o divorato da una bestia. Pensai solo di tornarmene su immediatamente, mi volsi verso la scala e mi bloccai.

Due occhi enormi, e non erano di una femmina sensuale, dolcissima o incantatrice, mi puntavano silenti e immobili. Non mi estasiavano, anche se le iridi erano di un fuoco tra il viola o il blu, o un colore che in quel momento non mi interessava affatto. Puntai la torcia contro gli occhi e mi si rischiarò la mente. Aveva una testa oblunga, come un coccodrillo, enorme e maestosa, il corpo si snodava a guisa di serpente, la coda batteva a terra come se la bestia fosse in attesa di attaccarmi o di “decidere” cosa fare.

In quell’attimo compresi che non ero già stato divorato solo perché la Biddrina aveva aspettato per godere della mia paura, o forse ancora non mi aveva sbranato a causa del fastidio che la mia torcia procurava alle sue pupille ferine.

Indietreggiai lentamente verso il piccone, puntando sempre il mostro che non si mosse. Mi guardava incantato, felice, e io ne ero quasi affascinato (era pur sempre una creatura bellissima); ma per me non poteva essere un’estasi durevole, come lo era per lei, giacché ero lì per sfamarla.

  • Papà continua, che facesti? e la Biddrina ti mangiò?

Mio padre sorrise e mi rispose: “no, non mi mangiò.”.

Era un’estate degli anni ’70, una rovente qualsiasi in cui il sole siculo illumina e infuoca la regione e gli uomini come se li volesse ardere, ma questo racconto… lo ricordo come se fosse ieri, o come se fosse oggi.

Il genitore si inventava leggende e storielle, che non avevano mai un finale, non sapeva come proseguirle, ma doveva far addormentare, in quei pomeriggi che sembravano infiniti, me e mia sorella, che subito sveniva a metà narrazione.

Io invece avrei desiderato sapere di più, ero curioso, volevo che la Biddrina morisse, come ogni mostro cattivo che sbrana la gente e gli animali. Avevo persino paura che un giorno venisse nel giardino e si mangiasse il cane Jack e le galline. Ma quella non venne mai, e giammai la vidi.

Lei si salvava sempre, e ancora continua a vivere nelle leggende, nel castello, nel fiume, nelle gebbie o chissà dove.

Joe Oberhausen-Valdez

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