EditorialeFANSRacconti

Prologo

Forse, se non fossi stata una stramaledetta vagabonda tutto questo non sarebbe successo. Forse, se avessi accettato il mio destino di donna in una famiglia patriarcale, non mi sarei ficcata in questo casino più grande di me. Forse… forse…

la mia mente era talmente affollata di forse e di ma da non lasciarmi tempo di pensare ad altro. Immagino che alcuni di voi, dopo aver letto questa storia, penseranno che sono solo una persona egoista e magari immorale. Vorrei darvi ragione perché anche io penso di esserlo stato in almeno un paio di occasioni, ma, se ripenso alle umiliazioni che ho dovuto subire da quei rognosi dei miei parenti, beh… credo che il mio comportamento possa essere almeno in parte, giustificato. Non avete idea di cosa significhi sentirsi considerata una nullità da gente che dovrebbe invece sostenerti ed ascoltare le tue idee. Alla fine anche io mi stavo convincendo di non sapere fare nulla, ma non era così. Quello che è accaduto è stato indipendente dalla mia volontà anche perché ero convinta che certe mostruosità fossero il parto della fervida fantasia degli scrittori horror e che non esistessero nel nostro mondo. Ho deciso di scrivere queste righe per mettervi in guardia dalle persone che si offrono di aiutarvi senza pretendere nulla in cambio, perché nessuno fa nulla gratis. Magari non vogliono beni materiali, ma pretenderanno un pezzo di voi. E a quel punto dovrete scegliere se combattere o lasciarvi sopraffare. Io ho deciso di oppormi: sono sempre stata una guerriera perciò non mi faccio mettere i piedi in testa da nessuno. Ho combattuto e sto combattendo la mia battaglia perché il mio nemico non è di questo mondo. Lui ha potere sulla vita e sulla morte: soprattutto su di essa perché, grazie ai suoi sortilegi, i morti sono risuscitati ed hanno preso possesso della Terra.

Non avrei mai creduto di essere capace di un tale abominio, mai. Ma, evidentemente, quando si avverte la morte dietro al culo si fa di tutto pur di non farsi toccare dal suo alito gelido. E, credetemi, stava quasi per raggiungermi e dovevo fare qualcosa. Non solo per me, ma anche per le persone innocenti che si ritrovarono coinvolte in quel pasticcio (è  proprio il caso di dirlo) loro malgrado.

Tutto procedeva così bene qui, a Los Angeles, ma avrei dovuto immaginare che mai e poi mai sarei stata libera di vivere la mia vita senza essere attaccata al suo giogo infernale. Pensavo che dopo aver estirpato la parte malata, il mio corpo fosse stato purificato e nulla di lei fosse rimasto… mi sbagliavo. Ormai ero stata toccata da quell’ appetito innominabile e a quella megera maledetta le bastò captare l’odore della scia di sangue che stavo lasciando dietro di me. Mi ero illusa di poter iniziare una nuova vita in completa autonomia, ma sembra che il mio destino sia sempre quello di dipendere da qualcuno. Dovevo compiere un ultimo sacrificio e poi… poi tutto sarebbe filato liscio. Uno solo, ma il mio cuore e le mie viscere si ribellavano e per me fu davvero difficile. Decisi di rivolgere la rabbia e l’odio che covavo segretamente verso me stessa, nei suoi confronti e loro crebbero e crebbero, fino a portarmi a quella tragica decisione. Una decisione dalla quale dipendeva la vita della mia famiglia.

Fui una stupida cinque anni fa, quando decisi di seguire ciò che mi dettavano la ribellione e la superbia lasciando Omaha, le dorate distese di grano del Nebraska, e, con esse, anche il ristorante ben avviato dei miei genitori. La mia famiglia è nel ramo della ristorazione da sempre; i miei avi erano originari di Napoli ed avevano una piccola trattoria che fruttava abbastanza bene… almeno fino al 1943 quando un bombardamento distrusse il palazzo che l’ospitava. Circa un paio di mesi dopo, i miei nonni si trasferirono in Nebraska dove la stirpe dei “La Paglia” continuò. Io nacqui nel 1978 e venti anni dopo decisi di averne abbastanza di pizze, lievito madre e pummarola n’coppa. Io volevo fare un salto di qualità e proporre piatti internazionali, creoli soprattutto.  Avevo imparato a cucinare il Gumbo, la Jambalaya e così via. Naturalmente, le mie proposte furono respinte dagli uomini della mia famiglia, con una sonora risata ed un perentorio «Va a controllare la pizza nel forno, invece di sparare cazzate!». Ma le mie idee non erano cazzate, bensì innovative. La sera stessa svuotai il conto corrente, caricai la macchina e mi diressi in Louisiana. Gli avrei dimostrato che non ero una sciocca donnetta da comandare e spedire in cucina a calci in culo. No, mai! Mai avrei passato la mia vita a fare la schiava, come mia madre. Io avrei aperto il mio ristorante e li avrei mandati tutti a quel paese! Tuttavia, prima di acquistare il locale, decisi di cambiare nome. La sera del 19 agosto 1998, Carmen La Paglia morì e, dalle sue ceneri, nacque Gloria King. Già dal nome si capiva il mio smisurato egocentrismo. Raggiungere un certo prestigio personale era, da sempre, il mio chiodo fisso e quel nome mi sembrò ben augurante. Inoltre, avrebbero avuto serie difficoltà a rintracciarmi subito. In valigia avevo qualche abito elegante, delle scarpe, libri e 250.000 dollari, ovvero la mia eredità, tutti in banconote da piccolo taglio e ben nascoste in una tasca segreta sul fondo della mia valigia in finta pelle. Non erano molti, ma abbastanza per iniziare una nuova vita lontana dalle stesse pietanze.

L’unico piatto per cui andavo matta erano le polpette al pomodoro, le veneravo fin da piccola e ne mangiavo talmente tante da stare male per un paio di giorni! E “Polpette al Pomodoro” era il nome che volevo dare al mio locale, ma, quando vidi l’immobile che anni prima era un ex convitto gestito da suore, decisi di cambiarlo e lì ebbe inizio la mia discesa agli Inferi…


CAPITOLO 1

LA LOCANDA DEL BUON PASTORE

Dopo averci tanto pensato, scelsi di dare questo nome al mio ristorante. Mi sembrò di buon auspicio ed anche rispettoso, dato che sul soffitto della grande sala nella quale avremmo servito i pasti, vi era un enorme affresco di un pittore sconosciuto che raffigurava Gesù, il Buon Pastore, in mezzo al Suo gregge. Inoltre, era anche il mio modo di ringraziare la Divina Provvidenza per avermi fatto trovare un posto così suggestivo ad un prezzo irrisorio. Avrei dovuto immaginare che qualcosa non quadrava, un immobile del genere sul mercato vale almeno 150.000 dollari, io invece l’avevo avuto per meno di 90.000. Certo, era praticamente un rudere ed i lavori di ristrutturazione mi costarono altri 50.000 dollari, ma col senno di poi dovetti ammettere che fui fregata alla grande visto come andarono le cose e come fui costretta ad agire, quando capii che mi ero spinta troppo oltre.

Dopo averci tanto pensato, scelsi di dare questo nome al mio ristorante. Mi sembrò di buon auspicio ed anche rispettoso, dato che sul soffitto della grande sala nella quale avremmo servito i pasti, vi era un enorme affresco di un pittore sconosciuto che raffigurava Gesù, il Buon Pastore, in mezzo al Suo gregge. Inoltre, era anche il mio modo di ringraziare la Divina Provvidenza per avermi fatto trovare un posto così suggestivo ad un prezzo irrisorio. Avrei dovuto immaginare che qualcosa non quadrava, un immobile del genere sul mercato vale almeno 150.000 dollari, io invece l’avevo avuto per meno di 90.000. Certo, era praticamente un rudere ed i lavori di ristrutturazione mi costarono altri 50.000 dollari, ma col senno di poi dovetti ammettere che fui fregata alla grande visto come andarono le cose e come fui costretta ad agire, quando capii che mi ero spinta troppo oltre.

Avrei dovuto lasciar perdere i consigli di Maman Marie, ma all’epoca non la conoscevo bene e pensavo di potermi fidare di lei. Le era bastato affondare lo sguardo nei miei infossati occhi blu per capire che qualcosa mi stava divorando l’anima. Maman Marie, era considerata una strega nel Quartiere Francese, ma una strega nel senso buono del termine: conosceva tutte le proprietà delle piante e se ne serviva per curare ogni genere di malanno. La gente la rispettava e la temeva al tempo stesso, perché se era vero che si prodigava per gli altri, era anche plausibile che facesse anche cose agli altri se aveva il minimo sospetto che qualcuno stesse deridendola o, peggio, raggirandola. Era una donna corpulenta, dalla carnagione olivastra, e sempre abbigliata di bianco. Nessuno sapeva da dove provenisse, circolava voce che fosse giunta dalle Antille, ma il suo francese sgrammaticato ed il suo accento duro, non avvaloravano quest’ipotesi. Alcuni erano convinti provenisse dai Monti Urali, altri credevano che fosse tedesca, altri ancora pensavano fosse discendente di un’antica stirpe di bokor e, quando la scorgevano in lontananza, si facevano il segno della croce. Anche se sulle sue origini i pareri erano sempre discordanti, l’unica cosa che metteva tutti d’accordo era che conoscesse fin troppo bene le arti magiche e che, occasionalmente, mettesse in atto alcune pratiche vudu e udù per vendicarsi di qualche torto subito.

Forse era per questo che Tony Bouchard, proprietario del B&B Le Dale, nonché noto usuraio, le permetteva di soggiornare nella migliore stanza del suo hotel, quella prospiciente il Mississippi; a Maman Marie piaceva guardare i battelli che attraccavano. Lei diceva che Bouchard non le permetteva di pagare perché si sentiva in debito nei suoi confronti, dato che quando era piccolo lo aveva salvato dalla Malaria, ma io so che non è così. Maman Marie pagava, eccome se pagava! Tuttavia non erano soldi quelli che depositava nelle casse di Tony, no. Lui pretendeva che la donna mettesse in pratica le sue doti, fabbricando bamboline di cera con le fattezze dei pessimi pagatori. Tali simulacri venivano poi trafitti da lunghi spilloni, o tormentate con il fuoco o, peggio, gettate in acque scure e vorticose.

Non passava molto tempo che la persona a cui era stata assegnata la bambola iniziasse a soffrire di malesseri inspiegabili a cui i medici non sapevano trovare una causa. E quando la medicina tradizionale falliva, entrava in campo la stregoneria. Essi si rivolgevano a Maman Marie per avere sollievo da snervanti emicranie e febbri spossanti e lei, come una madre amorevole, si prodigava per quegli infelici, i quali erano ben lieti di versarle delle somme in denaro pur di guarire. E così Maman Marie, dopo aver gettato loro il malocchio, glielo toglieva e divideva i soldi con Tony! Come faccio a saperlo? Semplice, me lo ha confessato lei stessa, pochi giorni dopo l’inaugurazione del locale, quando eravamo ormai legate da un patto che mi fece stringere con l’inganno.

All’epoca mi fidavo di lei e, assetata di affetto e rivincita com’ero, la considerai quasi una seconda madre quando mi offrì il suo aiuto. Che idiota! Purtroppo, i miei 250.000 dollari non bastarono per la completa ristrutturazione del locale ed i lavori sarebbero rimasti fermi se non avessi versato altri 15.000 dollari, ma non li avevo. Quei soldi erano tutta la mia eredità e adesso il mio conto era più rosso del culo di un macaco, e non avevo nessuno a cui chiedere aiuto. Rivolgermi alla mia famiglia era fuori discussione, visto il modo in cui ero fuggita, e poi non volevo tornare come un cane bastonato anche perché avrei dato loro l’ennesima prova che non riuscivo a camminare sulle mie gambe e probabilmente non ce l’avrei mai fatta. Mi avrebbero fatta sentire come una merda schiacciata da un camion per il resto della mia vita.

Decisi così di chiedere un prestito in banca, ma mi fu rifiutato non potendo fornire alcuna garanzia. Visitai almeno venti istituti bancari, ma tutti mi negarono il loro aiuto. Un pomeriggio piovoso stavo seduta sui gradini di fronte all’entrata del ristorante con il capo abbandonato fra le braccia; non volevo cedere ai singhiozzi, ma la disperazione ed il senso di impotenza ebbero la meglio. Nessuno dei miei collaboratori mi poteva aiutare, se non moralmente, e purtroppo gli operai ed il materiale edile andavano pagati con il denaro contante o con un bell’assegno non certo con baci e abbracci!

Stavo dunque pensando che forse avrei dovuto dire addio ai miei sogni di gloria e tornare con i piedi per terra. Gettai un’occhiata alla facciata che era ancora grezza, se avessi avuto i soldi avrei potuto inaugurare la mia Locanda del Buon Pastore di lì a qualche giorno e grosse lacrime rotolarono giù lungo le mie guance pallide e scavate ed eruppi in un pianto disperato. Alcuni secondi dopo, Tony Bouchard mi si parò davanti e fu come se un’eclissi avesse oscurato quel po’ di sole che faceva capolino da una nuvola grigiastra che non prometteva nulla di buono. Avere di fronte Tony era come guardare un grattacielo di trenta piani, tanto era alto e possente. Io, col mio metro e sessanta a malapena gli arrivavo alla cintola. Alzai gli occhi ed abbozzai un sorriso, fu quasi un gesto meccanico dovuto alle raccomandazioni di mia madre quando qualcuno è accanto a te, sorridigli. Potrebbe essere un angelo! Come no, mammina. Proprio un bell’angelo… con le corna. Ma non potevo sapere che razza di farabutto fosse Tony, non in quel momento. Mi era apparso dal nulla con quel suo sorriso a ventotto denti (gli mancavano i canini… almeno non avrei dovuto preoccuparmi di proteggermi il collo!) e gli occhi stretti in due fessure. La sua pelle era bianca, come pasta cruda.

«Le belle donne non dovrebbero mai piangere!», sentenziò, strascicando i piedoni.

«Ma io non sono bella perciò ne ho tutto il diritto!». risposi, forse un po’ troppo bruscamente.

«Se lo dice lei, pazienza. Ero venuto solo per sapere perché è così disperata. Credo che a tutto ci sia una soluzione. Tranne che per la Morte e le tasse!», e scoppiò in un’altra delle sue risate.

Stavolta fece sorridere pure me e gli spiattellai tutto come una bimba dell’asilo che frigna con la maestra perché le è stata rubata la merendina. Non avrei mai dovuto confidarmi con quel tizio, ora non starei affondando nelle sabbie mobili che io stessa avevo creato.

«E, quindi, dove sta il problema? Sta affogando pure l’anima nelle lacrime per 15.000 miseri dollari?».

Lo guardai con gli occhi sgranati, per lui una tale cifra era una miseria, per me era la scala che mi avrebbe permesso di raggiungere il mio sogno.

«Io non dispongo di questa somma: la mia famiglia sì, ma io no. E non andrò a mendicare il loro aiuto per nessun motivo al mondo!», conclusi, accecata dall’odio per i miei parenti.

«E chi le ha detto che deve chiedere aiuto a quei cani? Glieli presterò io!», affermò con un tono di voce che non ammetteva repliche.

Io ero troppo sbalordita per protestare o aggiungere qualcosa e nella mia mente già mi vedevo sulle più importanti riviste di ristorazione appena dopo aver conquistato la mia prima stella Michelin. Fu la mia sete di potere a ficcarmi nell’ennesimo pasticcio; avrei fatto meglio a tornare da dove ero venuta e con le pive nel sacco, piuttosto che essere costretta a fare questa cosa abominevole, ma, ripeto, non potevo, non volevo mostrare agli uomini della mia famiglia che avevo miseramente fallito. Così le mie labbra si schiusero e da esse uscì quel che diede inizio a tutta quella sporca faccenda.

«Allora affare fatto!», disse, mentre ci riflettevo su.

«E a quanto ammonterebbero gli interessi? Perché immagino che non mi omaggerà di quei soldi solo perché le piaccio, giusto?».

Tony fece un sorriso e poi sembrò bofonchiare qualcosa. «In realtà non voglio neanche un centesimo da lei».

Strabuzzai gli occhi dopo aver udito quella frase. E se la mia cara, vecchia mamma avesse avuto ragione dopotutto? Magari questo Tony era veramente un angelo. Maria Antonietta La Paglia, ovvero la mia svanita genitrice, non capiva un cazzo di relazioni interpersonali, né di come guidare una figlia per i sentieri della vita, ma quando si trattava di sparare perle di saggezza metafisiche o pseudo psicologiche, era imbattibile e, una volta su cento, azzeccava la sua previsione. Sottolineo: quell’una volta su cento. Forse Tony rientrava in quella statistica. Mentre ero indecisa se dare libero sfogo alla mia gioia con una serie di capriole, o cantando a squarciagola Yellow Submarine dei Beatles, ecco la doccia tiepida.

«Io non voglio i suoi soldi, ma desidero diventare suo socio. Potrei esserle d’aiuto, mi creda».

Ribadisco che fu una doccia tiepida poiché mi sarei aspettata che mi snocciolasse una sfilza di regole circa le rate per la restituzione del prestito e l’ammontare degli interessi ed invece ecco quella proposta. Fu una doccia tiepida perché non mi raggelò, ma mi spiazzò ugualmente. Non ero sicura di volere qualcuno che amministrasse il locale insieme a me; io ero l’unica ad avere potere decisionale. Tuttavia, non potevo dirgli di no, le uova erano rotte e tanto valeva farci una bella frittata. Mi diede l’assegno poche ore dopo e, quando firmai il contratto che lo vedeva socio alla pari, i lavori ripartirono.

Due settimane dopo, La Locanda del Buon Pastore aprì ufficialmente i battenti con tanto di articolo sull’edizione serale del Mississippi Post. Era stato Tony a pubblicizzarmi a mezzo stampa dato che conosceva l’editore di quella testata. Feci tre copie dell’articolo, due le incorniciai per appenderle nel locale e nell’appartamento che occupavo nello stesso stabile, l’altra, manco a dirlo, la spedii alla mia famiglia con un ghigno satanico dipinto sul volto immaginando la faccia che avrebbero fatto quei porci, vedendo che non avevo bisogno di loro. Immaginai che a quella cazzona di mia cugina Sylvie sarebbe venuto un infarto mentre era seduta sulla tazza del cesso, e ciò mi mise di buon umore per il resto della giornata. Il giorno dopo, ricevetti la visita di Maman Marie che volle assaggiare la specialità della casa, ovvero le polpette al pomodoro. Ne rimase estasiata e pronosticò che sarei diventata famosa in tutti gli States con la mia cucina. Le lanciai un’occhiata interessata ma scettica, dato che non credevo a tutte queste menate paranormali.

I giorni trascorrevano lentamente e senza particolari avvenimenti. Purtroppo, il ristorante dopo il pienone dei primi giorni, iniziò a svuotarsi e le uscite non coprivano le entrate. Proponevo piatti tradizionali della Louisiana come la Jambalaya ed il Gumbo unite a pietanze internazionali, ma le sue sorti non migliorarono. Una sera, mentre ascoltavo il dolce sciabordio del Mississippi, Tony Bouchard rivelò la sua vera natura di usuraio e bastardo fino al midollo. Venne a battere cassa, dicendo che era stato un errore prestarmi quei soldi e non pretenderli. Io gli feci notare che c’era un contratto secondo il quale lui non aveva nulla a pretendere, ma mi rispose che era solo un pezzo di carta e che, con il mio merdoso locale, non avrebbe mai visto un centesimo. Pretese di avere 5000 dollari entro due giorni, il resto lo dovevo saldare di lì ad una settimana. Aggiunse che se non avessi versato la prima tranche entro la data stabilita, alla mia famiglia sarebbe arrivato un macabro regalo da New Orleans. Sapeva tutto di me, perfino l’ora della mia nascita. Immaginai che il “regalo” sarebbe stato un pezzo del mio corpo, magari un orecchio o una tetta, avvolta in carta increspata e corredata da un bel fiocco di raso. Dove avrei trovato tutti quei soldi in quarantotto ore? Dovevo pagare i miei dipendenti e due cameriere se ne erano già andate a servire ai tavoli da McDonald’s perché lì la paga era sicura. Adesso avevo solo un cuoco, la direttrice di sala ed una cameriera ai quali avrei dovuto versare gli ultimi 3000 dollari prima di chiudere il locale. Per sempre.

In quella, venne Maman Marie per gustare la mia Jambalaya che preparai personalmente. Mi disse che avevo un dono speciale per la cucina e che non dovevo scoraggiarmi. Mi confidai con lei; sentivo che quella donna, nonostante la sua vena di stramberia, era una brava persona. In venti anni di vita, non ero mai riuscita a confidarmi con mia madre perché era sempre presa dalle sue faccende filosofico- trascendentali per prestarmi attenzione. Mi ero ormai rassegnata a non avere una spalla su cui piangere, né qualcuno a cui confidare i miei problemi… quando ecco che mi si presenta questa tizia corpulenta e ridanciana; la classica donna delle aste di beneficenza della parrocchia, pronta ad ascoltare e dare consigli solo se richiesti. La mia mamma ideale! Mi ascoltò attentamente, poi disse che nessun problema è insormontabile se si sa come comportarsi. E lei, per mia fortuna, lo sapeva. Mi consigliò di pagare i miei dipendenti e di licenziarli, ma con delle ottima referenze. Disse che avrei dovuto chiudere il locale per una decina di giorni, durante i quali ci sarebbero stati dei cambiamenti e che mi avrebbe procurato nuovi dipendenti i quali avrebbero lavorato quasi gratuitamente perché non avevano bisogno di nulla se non del cibo speciale che gli avrebbe procurato lei stessa.

«E Tony? Mi farà a pezzi se non salderò il debito», quasi urlai, piangendo.

Lei mi prese il viso fra le mani e mi assicurò che gli avrebbe parlato e risolto la faccenda. Mi sentii rincuorata e le regalai un sorriso pieno di gratitudine.

«Tu mi aiuterai, vero?».

Sembrava una domanda, ma in realtà era un’affermazione. Le risposi di sì con un cenno della testa.

«Come?», le chiesi.

«Oh, niente di che. Dovrai solo procurarmi queste cose all’erboristeria qui di fronte. Sono erbe che curano gli acciacchi dei vecchietti come me!», esclamò, dandomi un foglio di carta vergato a mano.

Alcune piante mi erano note, altre come la Mucuna Pruriens, Datura Stramonium e la Albizzia Lebeck mi erano del tutto sconosciute. Andai subito al negozio, “L’arcobaleno Magico”, e diedi la lista alla commessa. Mi guardai attorno e vidi un’enorme quantità di candele verdi accese e degli scaccia spiriti indiani. L’aria era satura dell’odore di incenso che bruciava in un braciere e sugli scaffali stazionavano boccette dal contenuto multicolore.

«Tu devi essere la nuova galoppina di Maman Marie, giusto?»

«Come, prego? Non capisco…»

«Fa niente. Capirai presto», tagliò corto la ragazza, scuotendo la testa dai lunghi capelli color cioccolato. «Ehi, Joe», gridò ad un ragazzo dai capelli rossi, «mi sa che fra un po’ ci sarà un’altra invasione come quella di due anni fa. Ricordati di fare una buona scorta di fiammiferi e combustibile!».

La guardai con aria interrogativa, ma lei mi consegnò il sacchetto e girò sui tacchi, lasciandomi come uno stoccafisso.

Quella sera stessa diedi le erbe a Maman Marie, la quale mi disse che non ci saremmo viste per un giorno o due dato che doveva sbrigare alcune faccende private. Mi rammentò i punti salienti del suo piano per tirarmi fuori dalla situazione incresciosa nella quale mi ero cacciata e disse che sarebbe tornata con i miei nuovi collaboratori. Prima di andarsene, prese una copia della Bibbia e mi fece mettere la mano destra sulla copertina in cuoio nero, tutta sbrindellata.

«Sai, Gloria, in te rivedo me stessa da giovane. Nei tuoi occhi arde lo stesso fuoco ambizioso che divorava pure la mia anima. È per questo che voglio aiutarti, per aiutare un po’ la ragazza che sono stata. Ma spero che tu non farai come la serpe che morde la mano che la nutre. Tu non sembri una persona ingrata, tuttavia voglio essere sicura che non sarò presa a pesci in faccia quando tutta questa storia sarà finita e le nostre strade si separeranno. Giura su questa Bibbia che non dimenticherai mai ciò che sto facendo per te».

«Lo giuro!», dissi solennemente, anche se non ero una persona religiosa.

Non appena pronunciate quelle parole, udii come una sommessa risata provenire dal libro. Il palmo della mia mano iniziò a formicolare e mi accorsi che mi si era formata una strana vescica che, però, scomparve subito.

“Ma che…», sbottai, scrollando la mano.

«Non ti preoccupare. Forse sei allergica a qualche erba, la copertina ne è intrisa perché la manipolo spesso. Sarò di ritorno fra due giorni al massimo. Nel frattempo, sta tranquilla e ricorda che non sei sola».

Mi fece uscire da casa sua ed io la guardai mentre si allontanava col suo passo pesante. Sentii di provare uno strano sentimento nei suoi confronti, una specie di affetto misto a riverenza. Sperai mi togliesse Tony dai piedi ed immaginai cosa mi sarebbe potuto succedere se non ci fosse riuscita. Subito mi balzarono alla mente, sanguinose immagini di arti mozzati ed impacchettati, pronti per essere recapitati alla mia famiglia in Nebraska. Magari ai miei cugini non sarebbe importato un fico secco di sapermi a pezzi come un manzo, ma i miei genitori sarebbero impazziti dal dolore. Perfino quella mezza esaurita di mia madre sarebbe emersa dal suo oceano di elucubrazioni per nuotare nella cruda realtà. Mi incamminai lentamente verso casa mia, quando mi sentii chiamare; la voce arrivava dai cespugli di buganvillea e oleandro che costeggiavano la strada e così mi avvicinai. Non vidi chi era, ma la voce mi sembrò quella della commessa dell’erboristeria.

«Ehi, non ti avvicinare troppo perché daresti nell’occhio ed io devo stare attenta. Quella ha occhi e orecchie da ogni parte».

«Quella chi?», chiesi, alquanto scocciata. Odio chi non mostra il suo volto.

«Maman Marie. Non ti fidare di lei; è infida come una iena. Senza contare che è capace di resuscitare i morti. Lei ti vuole accalappiare come ha fatto con tanti altri. Ti legherà a se e tu non potrai ribellarti».

Nell’udire quelle parole fui indecisa se scoppiare a ridere o chiamare la neuro. Un’umana capace di risuscitare i morti? E che razza di baggianata era mai quella! Optai per la prima soluzione e mi feci una grassa risata. 

«Io non so di che male misterioso tu soffra», le dissi, «ma ti prego di lasciarmi in pace. Solo Gesù può risuscitare i morti non certo una donna. Cosa vuoi da me?».

«Sapevo che non mi avresti creduta perché la tua ignoranza sulla nostra cultura è abissale. Ma ti scongiuro, non fare nulla di ciò che lei ti chiederà da ora in poi. Se la asseconderai, sarai sua complice. E nessuno avrà pietà di te, quando dovremo fare pulizie».

«Che genere di pulizie?»

«Una specie di pulizia etnica»

«Ma tu sei pazz…»

«No, non sono io la pazza, ma tu se non te ne vai immediatamente da questo posto. Non devi mai entrare in casa sua o toccare gli oggetti che ti porge».

Mi portai una mano alla bocca ripensando a quello strano giuramento. Per qualche strano motivo, le sue parole stavano generando in me un moto di inquietudine.

«Oh, Dio. È già successo, vero?»

«S…si. Mi ha fatto giurare sulla Bibbia che ricambierò il suo aiuto», balbettai, confusa.

«Quella non è la tua Bibbia, bensì la sua. Mi spiace, non posso più fare niente per te, tranne chiederti di leggere questo libro e cercare le tue risposte. Rifletti bene prima di fare qualsiasi cosa, anche se ormai è troppo tardi».

Mi mise in mano un libriccino, intitolato “Il Serpente e l’Arcobaleno”e scomparve nella notte. 

Da una rapida occhiata alla copertina che raffigurava un uomo con le braccia aperte tese verso alcune tombe dalle quali uscivano i cadaveri, capii che l’argomento erano gli zombie. Avevo sentito parlare di queste creature, i morti viventi, ridotti in schiavitù dagli stregoni vudù, ma non credevo esistessero. Sono sempre stata una persona pragmatica e concreta, se qualcuno mi avesse detto di aver visto un volto misterioso su un hamburger, io avrei visto solo della carne stracotta e probabilmente marcia. Fui tentata di gettare quel volumetto nel primo contenitore per la raccolta differenziata destinato alla carta, ma un inspiegabile senso di coercizione quasi mi costrinse a tenerlo.

Quella notte dormii poco e male. Sognai Maman Marie, quasi gigantesca e con dei lineamenti talmente duri da sembrare scolpiti nella pietra. Camminava lentamente e suonava il flauto, ma non era musica quella che si librava nell’aria, bensì gemiti e tormenti. I suoi piedi lasciavano enormi impronte sul terreno, simili a conche, e da ognuna di esse sbucava una persona che camminava lentamente, quasi ciondolando. La pelle era sfatta e grossi vermi gli uscivano dagli occhi e dal naso, mentre farfugliava frasi incomprensibili. Mi svegliai madida di sudore gelato ed ebbi l’impressione di non essere sola. Avvertii dei respiri affannosi alle mie spalle, ma non fui abbastanza coraggiosa da girarmi per dare una sbirciata. Al contrario, fuggii dalla camera da letto e mi rifugiai al ristorante, dove trascorsi le ultime tre ore di buio.

La mattina seguente, il sole inondava New Orleans ed il cielo azzurro sembrava affondare nelle acque placide del Mississippi. Mi diedi della stupida per aver lasciato il mio comodo letto ed aver passato la notte su di una sedia e salii in camera per vestirmi. Lì regnavano ancora le tenebre perché gli scuri erano abbassati e non entrava neanche un filo di luce. Feci per alzare le tende, quando vidi due puntolini rossi che mi fissavano. Erano grandi quanto due occhi umani e sembravano sospesi in aria; pensai fosse un riflesso e mi avvicinai. In quella, scorsi una foschia che li avvolgeva che, pian piano, assunse le fattezze di un volto umano. Una faccia che conoscevo e temevo perché era quella di Tony Bouchard. Quel giorno scadeva il termine per il primo pagamento, ed io pensai fosse il terrore che mi incuteva a farmi vedere una cosa che non c’era. Chiusi e riaprii gli occhi, ma quel volto era sempre di fronte a me ed iniziò a disfarsi, a sciogliersi come un gelato sotto il sole. La carne divenne sangue che colò sul pavimento ed il sangue si fece polvere che iniziò a turbinare come sospinta da un invisibile refolo di vento.  Non rimase nulla di quella faccia odiata, se non gli occhi che scomparvero nell’oscurità dopo alcuni secondi. Fissai il vuoto e persi i sensi per alcune ore. 

Fu Maman Marie ad aiutarmi a riprendere conoscenza, facendomi annusare dell’aceto e dandomi alcuni schiaffetti in viso. La guardai stralunata, ancora in preda a quell’orribile visione, e l’unica cosa che riuscii a mormorare fu: «Tony Bouchard!».

Lei mi guardò maternamente e disse che Tony ormai era una faccenda appartenente al passato. Un’ombra maligna apparve nei suoi occhi, adesso più neri che mai, ed un brivido serpeggiò lungo la mia colonna vertebrale. Qualcosa, nel mio subconscio, mi disse che mi ero cacciata in un brutto guaio. Quella sera stessa mi disse di avermi procurato quattro dipendenti, due uomini e due donne, che mi avrebbero aiutata, occupandosi di pulizie e manutenzione.  Risposi che stavo pensando di chiudere baracche e burattini, ma lei mi guardò minacciosamente e ribatté che non potevo mollarla dato che si era data molto da fare per aiutarmi ed, inoltre, avevo giurato che non mi sarei tirata indietro quando fosse giunto il momento di ricambiare i suoi servigi. E sembrava proprio che quel momento fosse arrivato.

«Tra poco quelle persone dovranno mangiare; hanno affrontato un lungo viaggio per venire qui ad aiutarti e sono stanche ed affamate. Ho detto loro che gli farai assaggiare la tua specialità, ovvero le polpette al pomodoro».

Non avevo alcuna voglia di cucinare, ma non potevo tirarmi indietro e così acconsentii.

«Sì, certo. Ho giusto un bel pezzo di collo di manzo che mi è arrivato dall’Italia. Lo devo solo tritare e…».

«No, non cucinare la carne italiana: non l’apprezzerebbero. Sono creoli e gustano solo la carne haitiana».

«Ma ormai è tardi per andare a a comprarla», obiettai.

«Non ti preoccupare. Te l’ho portata io!».

Così dicendo, trasse un grosso involto dalla borsa di cuoio marrone che portava sempre con se, e appoggiò un vassoio ricolmo di carne tritata. Emanava un soave profumo di spezie che riconobbi essere cumino e cardamomo. Era talmente appetitosa che l’avrei mangiata cruda. Maman Marie si accorse della mia espressione estasiata e sorrise sardonicamente. Non seppi spiegarne il motivo, ma quel sorriso non mi piacque per nulla. Mentre preparavo le polpette, non seppi resistere alla tentazione e ne assaggiai una. Il sapore di quella carne cruda era strano; al di sotto di quella glassatura di spezie, sapeva di rancido. La sputai nel lavandino e mi sciacquai la bocca. Tuttavia, pensai che quel saporaccio fosse dovuto a qualche ingrediente creolo a me sconosciuto e le cucinai. Con la cottura, acquisirono un sapore fantastico e quella sera le servii per cena al ristorante. I clienti erano sparuti, ma dalle loro espressioni, mi resi conto che apprezzavano il mio piatto e sicuramente mi avrebbero fatto buona pubblicità tra parenti e amici. Maman Marie portò le porzioni riservate ai dipendenti e mi disse che, mai per nessun motivo dovevo andare nella stanza riservata al personale. Quello era affare suo. Ciò non mi piacque perché io amo coltivare buone relazioni personali con i miei collaboratori, comunque non mi azzardai a contraddirla perché stava iniziando ad incutermi un certo timore.

Le previsioni circa la possibile buona pubblicità al locale, si rivelarono azzeccate e La Locanda del Buon Pastore, visse il suo breve periodo d’oro.  Questo stato di grazia durò circa un mese e mezzo ed, in quel lasso di tempo, i miei rapporti con Maman Marie divennero più stretti; lei mi dava buoni consigli e mi procurava quella fantastica carne speziata che dava un tocco in più alle mie polpette. Negli ultimi tempi, mi riforniva anche di una farina finissima con la quale confezionavo i dolci tipici della mia terra e che andavano letteralmente a ruba. Il passaparola diede i suoi frutti e, come dissi prima, il ristorante assaggiò la gloria… ed io con lui!

Un numero di Mademoiselle Cuisine mi dedicò la copertina ed un articolo all’interno, in cui la giornalista, Emily Levin, mi battezzò “La Signora delle Polpette” ed affermò che avrebbe fatto il bis, se non addirittura il tris, vista la loro bontà. In quella, iniziai a pensare che la scalata per raggiungere la Stella Michelin era un tantino meno ripida.

Le persone che Maman Marie aveva procurato, erano lavoratori instancabili che si accontentavano di vitto e alloggio e non pretendevano denaro. A detta della donna, non sapevano che farsene dei soldi se potevano sempre contare su un pasto tre volte al giorno. Gli affari andavano bene ed ero talmente stanca e soddisfatta, da non avere per la testa altro che La Locanda del Buon Pastore.

Non pensai più a Tony Bouchard… finché non ne lessi sul giornale. Una sera, eravamo sedute in veranda; lei pregava leggendo la Bibbia, mentre io sfogliavo distrattamente l’edizione serale del Mississippi Post.  Ero arrivata alla cronaca nera e gli occhi mi si chiudevano per la stanchezza, ma tra il resoconto di una rapina in banca e quello di un tentato scippo ai danni di una novantenne, vi era l’annuncio di una persona scomparsa e, quando lessi il nome, per poco non caddi dalla sedia. “SCOMPARSO. Da oltre un mese non si hanno più notizie di Tony Bouchard, 55 anni. L’uomo è proprietario dell’hotel Le Dale ed è conosciuto dagli abitanti del Quartiere Francese di New Orleans per la sua attività di strozzino. Chiunque avesse sue notizie contatti la polizia locale o la redazione del giornale”. Sotto l’annuncio, vi era una sua foto sgranata che lo ritraeva sorridente davanti al suo motel. Non ero dispiaciuta per la sua scomparsa, anzi! Ma volevo sapere se Maman Marie avesse messo le sue manine anche qui. Chissà, forse lo aveva ricattato e costretto ad una fuga repentina… però era strano che fosse fuggito senza neanche occuparsi del Le Dale che era la sua vita; perfino in quella foto sgranata, era palese l’orgoglio che provava per il suo hotel. Guardai di sottecchi Maman Marie che era ancora assorta nelle sue preghiere della sera e la mia domanda “Ma tu sai che fine ha fatto Tony Bouchard?”, era a fior di labbra pronta per essere spiattellata. Tuttavia, una vocina proveniente dal mio subconscio mi fece desistere. Che importanza aveva dove era andato a finire? Quel tizio non era che un gran figlio d’una baldracca e la sua scomparsa non era certo una grande perdita per la comunità. Eppure uno strano senso di inquietudine mi tormentava le viscere che sembravano contrarsi. E se Tony non fosse che il male minore, rispetto a qualcos’altro? E se quella ragazza aveva ragione nei confronti di Maman Marie? E chi erano quelle persone che lavoravano, mangiavano e vivevano nello scantinato? Perché mi era vietato avere rapporti con loro? Tutte queste domande esplosero nella testa come schegge impazzite di una granata. Forse avrei dovuto pormele tempo prima, ma ero indaffarata a soddisfare il mio ego e non potevo permettermi distrazioni. Adesso, però, sentivo che non mi era permesso crogiolarmi nei miei successi e dovevo indagare. Guardai l’ora sul display del mio iPad: le 22,30. Bene, avevo tutta la notte per indagare. Maman Marie, sbadigliò e posò la sua Bibbia; in genere si coricava molto prima di me ed io ne avrei approfittato per fare una visita ai suoi protetti.

«Le mie povere ossa reclamano il letto, mia cara. Tu che fai?», mi chiese.

«Credo andrò in cucina a prepararmi una tazza di karkadè e poi di corsa a dormire!», risposi, fingendo di essere allegra.

«Non ti attardare a sbrigare le faccende, ci sono i collaboratori che devono smaltire il cibo che ingurgitano! Tu devi riposare per essere in forma e mandare avanti la baracca!», esclamò e se ne andò.

Aspettai di sentir chiudere la porta di ingresso e mi sporsi dal parapetto per vederla passare sotto la veranda; sembrava un grasso spettro con quella tunica, il cui biancore veniva accentuato dalla luce smorzata dei lampioni. «Forza e coraggio», mi dissi, andiamo a fare nuove amicizie e mi diressi verso lo scantinato. Per spezzare la tensione che mi martellava il petto, iniziai a fischiettare il Bolero di Ravel; non sapevo fischiare, ma il suono della mia voce mi rincuorò e proseguii lungo le scale umide e ripide della cantina. Le pareti erano di solida roccia e trasudavano innumerevoli goccioline di acqua che veniva assorbita dal muschio e dai licheni che vi crescevano sopra. Mi chiesi perché Maman Marie facesse vivere quelle persone in un posto così lugubre ed inospitale… era inumano. Questa considerazione mi costrinse a pormi un’altra domanda: e se fossero delinquenti raccattati in qualche postaccio della malora? Forse temeva per la mia incolumità e per questo non voleva che io li avvicinassi. Che mi importava di conoscerli? Lavoravano bene e di loro si occupava Maman Marie. Ma cosa cacchio mi era saltato in testa? Fare tutta quella strada solo per vedere chi erano i miei servitori e di notte, per giunta? Quella faccenda di Tony Bouchard mi aveva un po’sconvolta ma adesso, a mente fredda, non mi importava più. Ritornai sui miei passi di gran carriera, quando udii un’acuta vocetta infantile, seguita da un profondo gorgoglio. Che diavolo ci faceva un bambino nel mio scantinato? Eh no, se Maman Marie sfruttava il lavoro minorile, ne avrebbe pagato le conseguenze. Io non tollero simili porcherie, i bambini devono studiare e giocare, non certo arricchire una grassona fuori di testa. Tesi l’orecchio per captare altri suoni, ma non sentii niente, eccetto un fastidioso rumore che somigliava al suono prodotto da tante bocche intente a spolpare le ossa. Feci attenzione a non produrre alcun rumore e mi avvicinai ad una porta che dava in una stanza della quale ignoravo l’esistenza… all’epoca non sapevo tante cose. L’uscio era socchiuso ed ascoltai tante voci, alcune fanciullesche altre virili. Non riuscii ad afferrare alcuna parola intellegibile poiché, più che parlare, balbettavano come se fossero incapaci di esprimersi in qualsiasi… lingua umana. Poi calò il silenzio rotto solo da un fragoroso risucchio. Aprii la porta e ciò che vidi mi fece rizzare i capelli sulla nuca e sprofondare l’anima sottoterra: seduti in terra, vi erano sei creature dalla carne sfatta e grondanti sangue da ogni parte del corpo. Ognuna di esse aveva la bocca attaccata a qualcosa di sferico, simile ad una noce di cocco. La mia presenza non passò inosservata e quegli esseri, quei mostri, si alzarono con le mani tese, simili ad artigli, verso di me. I loro movimenti veloci e repentini, trascinarono ciò che stavano divorando come fosse un pallone che finì ai miei piedi. Prima che le tenebre mi inghiottissero, identificai il loro pasto… era la testa scarnificata di Tony Bouchard!

CONTINUA….

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