Racconti

Ero un uomo in carriera, di successo, un uomo superiore, uno con la giacca e la cravatta.

Avevo tutto, madre Natura con me era stata fin troppo mite e generosa.

Calata la sera, mi sentivo stanco, dopo una settimana di lavoro intenso, in quella stagione che aveva tutto l’aspetto di un freddo inverno, che tuttavia non era proprio glaciale. Rientravo a casa in moto su una bella Bmw nuova di zecca, rabbrividendo per l’aria pungente.

Quella sera capii che, nonostante avessi troppo, ero annoiato, senza linfa vitale, senza scopi.

Forse era semplicemente autunno, almeno nel calendario, ma inverno dentro di me, dentro la mia anima, quella di un narcisista patologico preso dal culto di se stesso.

Arrivai a casa, dimora vuota e gelata. Lì avevo l’arredamento più bello e ricercato, vale a dire: artificioso e inutile.

Avevo tutto, e purtroppo non bastava, poiché quel tutto sintetizzava il Niente.

Preparai qualcosa che non mangiai, per poi buttarmi sul divano, a fumare un sigaro cubano, a bere bicchierini di grappa che mi fecero dimenticare la stanchezza stressante del giorno, lo spossamento del corpo, la noia di un’esistenza che sembrava ripetitiva e logorante.

L’indomani, una domenica qualsiasi, avrei avuto un’escursione cogli amici sull’Etna.

Il sentiero si inerpicava tra betulle e castagni, bellissimi, maestosi: esprimevano potenza e virilità. Erano lì da sempre.

Il sole era silenzioso, sbiadito dall’autunno, una luce che appariva ai miei occhi come una stella astrusa, mai davvero calda.

Gli amici cercavano funghi, io cercavo solo di camminare, di trovare qualcosa di rilevante, Cosa non so. Tra gli alberi annaspavo perduto, sperando in una fatalità che mi sorprendesse, un evento che mi vivificasse.

Camminavo velocemente, ammiravo le bellezze nascoste del bosco, mentre pian piano volgeva la sera.

Mi persi, chissà dove; non avevo punti di riferimento, se non alberi, faggi immensi, cieli, più o meno stellati, e burroni. Gelavo e non potevo restare fermo, dovevo procedere per scaldarmi. I miei compagni mi avrebbero cercato, ma ora nell’oscurità sarebbe stato impossibile.

Ormai era buio veramente, quasi in preda al terrore o alla disperazione, quando lontana scorsi una luce. Lassù, su un monte, c’era qualcuno.

Adagio e alla cieca proseguii verso quel bagliore; tra i rovi e le more arrivai con fatica alla cascina. Non era grandissima, ma le poche luci esterne non mi diedero ovviamente una consapevolezza reale della sua dimensione.

Accanto al grande cancello spiccavano due colonne rotonde in pietra lavica; su una c’era un corvo, sull’altra un gatto nero egiziano, entrambi in pietra lavica.

Un glicine viola si arrampicava sul pilastro del corvo, un arbusto maestoso, anche se iniziava a perdere le foglie. Sull’altra colonna si avvolgeva una rosa rossastra dal profumo inebriante, che al tatto sembrava velluto, e che si univa alla coda del gatto.

Oltre il cancello, la porta della cascina sbatteva per il vento; entrai nella locanda. L’atmosfera era insolita e cupa. Non c’era nessun cliente. Il tempo dava l’impressione di essersi lì nascosto dalla gente, dalla consuetudine, dal rumore.

Mi accolse una signora non molta anziana, dall’occhio vivo e indagatore, sembrava la biglia di un rapace che scruta.

Le dissi che mi ero smarrito, le chiesi di poter usare il telefono fisso, visto che il mio cellulare non aveva campo, anche se prima avrei preferito mangiare e scaldare il corpo e pure l’anima.

La locandiera mi fece accomodare accanto alla finestra, da cui riuscivo a vedere l’immensità del bosco che attorniava il caseggiato. Sulla mia sinistra ardeva il camino.

Quel posto era strano però accogliente, un approdo inconsueto, una simbiosi tra realtà e la fantasia.

Arrivò una ragazza, quasi donna, al mio tavolo. Guardandola, mi sconvolse quel suo sorriso, mi sbalordì colla sua bellezza, la fierezza, il portamento. Aveva però un’espressione seria, come se fosse unica, e probabilmente lo era, o figlia unica e poi seppi che davvero lo era, e… malauguratamente per me: conoscevo benissimo il tipo. Eppure, in un solo istante mi creò un’aspettazione sovrumana, intrufolandosi nell’immaginario, divenendo sogno e poi respiro. Ansimavo guardandola estasiato.

Aveva i capelli rossi e lunghi legati con un’orchidea selvatica di color viola, gli occhi color ambra, carichi di fulmini e bagliori; nei suoi occhi vi erano i segreti del bosco e la veemenza dell’Etna, la sua pelle effondeva sentori di lavanda e di gelsomino.

Mi ardeva, mi arse ancor di più quando tornò dalla cucina con una brocca di nettare degli dei, che poggiò sul tavolo con mani squisite, sfiorandomi inavvertitamente le dita colle unghie di un colore scuro, lunghe e sensuali, mentre mi riempiva il bicchiere.

Il colore del vino era rosso rubino rilucente, intenso, di un aroma complesso e soave, profumava di antichità. Al berlo estasiava le labbra con un’eleganza flautata e voluttuosa. La sua fragranza impregnava il gusto di un effluvio vivo e allettante. Irretiva e ammaliava, elargendo un fervore estuoso, atavica rimemorazione di sole, di lava, di fuoco e di aromi di erbe montane.

Io bevevo e lei era lì che mi guardava, i suoi occhi penetravano i miei. Le sorrisi. Ella taceva, ma le sue iridi, quella notte, mi si impregnarono nelle carni. Non appariva reale, quasi fiabesca, a guisa di una strega.

Si allontanò dal tavolo, e le chiesi di dirmi almeno il suo nome. Sorrise e mi rispose: “Ardèa!”.

Sentii suonare il telefono, svegliandomi sul divano tutto sudato, in preda al panico. Risposi. Erano i miei amici, che mi sbatacchiavano di prima mattina, in quella domenica programmata per l’escursione. Lì liquidai immediatamente.

Capii che avevo sognato quella locanda e quella donna, e ora mi destavo nuovamente nel mondo vero. Eppure il sogno era così nitido; percepivo ancora l’odore denso di lavanda e gelsomino, sentivo in bocca il sapore del vino, ricordavo perfettamente gli occhi ambrati di Ardèa.

Non poteva essere solo un abbaglio, un’illusione onirica.

Lenti e tutti uguali i giorni morivano. Mi logorava il passare di ogni singola ora. Quel sogno scosse la mia anima. Vane furono le prove di incontrare Ardèa nuovamente nel sonno.

Ardèa?! Chi era, davvero esisteva?

Più volte me lo domandai; forse era frutto della mia immaginazione o l’abisso impossibile della perdizione, ma anche l’incantamento dell’estasi. L’arsione più tenebrosa e oscura, l’ignoto che seduce e meraviglia.

Il ricordo di quel viso mi perforava l’anima, la mente e il petto, flagellandomi con una passione estrema come se fosse la burrasca di una fascinazione.

Iniziai a trascorrere lunghe giornate oziose nel vuoto della dispersione, ore che divennero mesi.

Poi giunse la primavera, ma la mia ossessione non era cessata, era un pensiero insistente. Così quella domenica mattina mi decisi, e mi ritrovai in sella alla Bmw, diretto verso i boschi dell’Etna. Lasciai la moto in una radura che riconobbi, era quella del sogno; procedetti a piedi, trafitto dai raggi ristoratori di un sole non più sbiadito, filtrati da maestosi faggi e alti pini, finché non scorsi lontano il casolare. Iniziai a correre.

Il sentiero era pieno di gialle e profumate ginestre, nate su nere pietre di lava.

Tutto era uguale, come nel sogno. Il glicine fiorito e profumato, il gatto immobile attorniato dalla rosa di velluto.

Varcai il cancello.

Ad accogliermi due signori, marito e moglie. Lui alto e biondo cogli occhi color mare e un chiaro accento straniero. Lei mora con grandi occhi verdi, incandescenti come il magma.

Chiesi subito di Ardèa. Loro sorrisero e mi fecero accomodare.

L’interno della casa era proprio come lo vidi… mi sedetti e dopo qualche minuto arrivò lei, dai capelli rossi e occhi color cielo. “Ecco Ardèa”, mi dissi, le che mi versò nel bicchiere un vino color rosso rubino.

“Ardèa è una nostra antenata, una strega dell’Etna. Ardèa è tutto, è mistero, essenza, Natura.

Ardèa è vino, è la tenuta, è il nostro territorio. È lo sconvolgimento e la passione che hai sempre anelato. È sangue che pompa le arterie”, rispose ridendo lei.

– E tu chi sei? domandai

– Io sono Marlène! mi rispose, puntando le sue grandi iridi glauche dentro le mie, con una voce felina e sensuale.

Mi prese la mano e andammo sul terrazzo. Si vedeva il mar Jonio. In quel contesto, il profumo dei gerani e della magnolia inebriò potentemente la mia mente.

Ormai era l’ora del tramonto e, mentre il cielo si pitturava di rosso, il sole sembrava diventare timido, nascondendosi dietro il maestoso vulcano.

Io timido in vita mia non lo ero mai stato, ma Marlène, tra le fusa dei suoi gatti che l’attorniarono sul belvedere, sprofondava i suoi intensi occhi dentro i miei con tale passione, che io mi sentivo così piccolo di fronte a quelle labbra color di pesca, pregustandone il sapore.

L’avrei baciata subito, ma restai a contemplarla. Il suo corpo traluceva un’anima sorprendente.

Capii subito che Marlène era magnetismo, era gatto, colonna, era lei il nettare che avrei amato più di ogni altro prodigio.

Attendevo che aprisse la sua porta e io ci sarei entrato, dentro, sino a risalirle nella mente. Ero incantato da lei, per la prima volta in vita mia. Nella mia mente e nel mio cuore non c’ero più solo io; adesso c’era lei, lei era vita, sangue che pulsava nelle vene, battito dentro al petto, pensiero ossessivo, folle e febbrile.

Marlène era un’ecpirosi che bruciava il mio corpo, annichiliva la mente.

Capii che Ardèa aveva predisposto l’incontro delle nostre anime da tempi remoti.

Ardèa è mistero, è vino rosso color rubino, è il fuoco delle viscere dell’Etna. Ardèa è l’essenza di quella donna che noi Siciliani chiamiamo semplicemente A Muntagna.

Rosamaria Lo Faro
Joe Oberhausen-Valdez

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