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Buio.
Pioggia fitta nel bosco. È freddo, umido, batto i denti. Un fulmine illumina gli alberi, la sua luce rivela per un istante la figura di un cinghiale enorme, bianco, alto come una quercia. Mentre il tuono mi devasta le orecchie il cinghiale rimpicciolisce, assume una forma sempre più umana. Vedo solo i suoi occhi, ora. Si avvicina. Sorride, i suoi denti sono come quelli di uno squalo. Si avvicina. È Giacomo. È nudo, il suo pene bianco, lunghissimo e flaccido ondeggia mentre lui cammina. Sembra un verme cieco, pronto a prendere vita e a muoversi verso di me per attaccarmi. Si ferma a pochi metri di distanza. Ha in mano qualcosa. Una testa, la tiene per i capelli, come Perseo con la Medusa.
Giacomo alza la testa. È quella di Amina.
Vorrei urlare, ma non ce la faccio, apro la bocca ma ne esce solo silenzio.
La testa di Amina apre gli occhi, spalanca la bocca per l’orrore. E lei urla, urla, urla…

– Aaaaaaaaaaahhhhhhhhhhhhhh! Aaaaaaaaaaaaahhhhhhhhh!

Aprii gli occhi. Stavo urlando e non me ne rendevo neppure conto. Urlavo e basta, per il puro terrore del sogno, e il mio cuore batteva a diecimila battiti al minuto. Chiusi la bocca con qualche difficoltà. Sentivo dolore dappertutto e qualcosa di viscido mi scivolava sul viso. Alzai il braccio destro, lo portai alla testa. Sangue. Colava da un grosso taglio sulla fronte. Anche la bocca mi faceva male. Sentivo il sapore del ferro e… Sputai. La mia saliva era rossa, e insieme ad essa sputai anche un dente. Mi venne da vomitare, ma riuscii a trattenermi. Il sole picchiava sulla mia testa, era ancora caldo. Quanto ero rimasto svenuto. Un giorno? Ore? Minuti? Provai ad appoggiare a terra la mano sinistra per rialzarmi, ma un dolore lancinante mi fece urlare di nuovo. Qualcosa nella mia mano era fuori posto, il polso era gonfio e a malapena riuscivo a muoverla. Guardai le mia gambe. I pantaloni erano sporchi e pieni di graffi da alcuni dei quali colava qualche goccia di sangue, ma riuscivo a muovere i piedi e nulla sembrava rotto. La mia mano, invece…

Cercai in qualche modo di rialzarmi usando solo la destra. Barcollavo, ma riuscivo a stare in piedi. Lentamente il motore impazzito del mio cuore cominciava a calmarsi. Guardai ancora il polso sinistro. Forse non era rotto, forse era solo slogato. Potevo sistemarlo da solo? Provai a toccarlo con l’altra mano, ma la ritrassi subito per il dolore.

– Merda! – Esclamai, senza neppure pensare che qualcuno poteva sentirmi. Se Giacomo mi credeva morto dopo la caduta forse avrei dovuto rimanere in silenzio e nascondermi. Ma avevo già urlato prima, per chissà quanto tempo. Se era abbastanza vicino perché le mie urla arrivassero a lui, una parola in più non avrebbe avuto importanza.

Mi guardai intorno. Ero rotolato fino in fondo, almeno per dieci metri. Era un miracolo che non mi fossi fatto niente di più grave. Accanto a me c’era qualche alto cespuglio, poi il bosco ricominciava come niente fosse. Nessun cadavere, né di animali né di Amina… o di altri. Guardai anche verso l’alto, ma non riuscivo a capire se qualcuno mi stesse guardando o meno. A giudicare dalla posizione del sole non sembrava essere passato troppo tempo… o era passato un giorno intero. Come avrei potuto capirlo? Frugai in tasca. Non avevo più il telefono, sbalzato chissà dove dalla caduta e probabilmente finito in mille pezzi. Provai a cercarlo disperatamente per qualche istante, ma ben presto mi resi conto che si trattava di uno sforzo inutile. Strinsi gli occhi per un istante, mi spostai di qualche passo per rimanere più nascosto ed appoggiai la fronte al primo albero che trovai.

– Ok… ok… devo farcela… devo…

Con la mano destra presi la sinistra, e tirai verso il basso, come avevo visto fare qualche volta nei film per le spalle lussate. Basto un secondo per farmi capire che era stata una pessima idea. Il dolore non faceva che crescere, un grosso livido blu sembrava formarsi e dovetti mordermi il labbro per evitare di urlare ancora. Mi inginocchiai con le lacrime agli occhi, pensando che sarei morto lì, in quel bosco, soffrendo come un animale ferito. Come tutte quelle povere bestie che avevo visto poche decine di metri più in là. Mi rialzai, guardai verso il crepaccio da dove ero caduto. Non era impossibile da scalare, ma con un braccio solo utilizzabile, senza poter usare ila mano sinistra per potersi aggrappare…

– Devo trovare un’altra strada. – Dissi a me stesso.

Cercai con lo sguardo qualche sentiero o qualche pista di animali, ma niente sembrava visibile, o la mia conoscenza del bosco era troppo scarsa perché potessi capirci qualcosa. Avevo sete, era troppo caldo. Mi sfilai dolorosamente la maglietta e la legai stretta intorno al braccio ferito. Un dottore mi avrebbe guardato scuotendo la testa, ma mi sembrava meglio di niente. Ora muovere la mano era più sopportabile. Pensai a cosa fare. Forse potevo nascondermi, se era passato un giorno intero qualcuno sarebbe venuto a cercarmi presto. E anche se era passato solo qualche minuto, con tutta la preoccupazione creatasi per la scomparsa di Amina e tutti i poliziotti presenti in paes non ci sarebbe voluto molto di più. Ma chi sapeva dove mi trovavo? Lungo la strada non avevamo incrociato nessuno, neppure Primo quando passavamo davanti al suo campo. Mia nonna mi aveva suggerito di non andare nel bosco (dovevo ricordarmi di dar sempre retta ai vecchi… anche se Primo mi aveva suggerito di andare sempre in compagnia di Giacomo, quindi non sempre vecchiaia e saggezza andavano di pari passo) e io non le avevo neppure risposto. Le avevo fatto solo un gesto con la mano, come a dirle sta zitta! Poteva sospettare che fossi lì, ma non poteva esserne certa. L’unica persona a sapere veramente dove ero era Giacomo. Tutti sapevano che ero con lui, anche se nessuno ci aveva visto insieme. E se avesse negato di avermi visto, dicendo di avermi aspettato per ore senza che io mi presentassi… O peggio, se fosse tornato in paese a dire che eravamo insieme da tutta un’altra parte, magari nell’altro bosco dalla parte opposta del paese, e che ero caduto in un altro burrone… O che aveva visto un auto di zingari che mi aveva caricato e mi aveva portato via con la forza… Forse la sua storia non avrebbe potuto essere verificabile fino in fondo, ma a lui sarebbe bastato prendere tempo perché le ricerche si concentrassero in un’altra direzione, perché avrebbero dovuto pensare che mentisse? Eravamo amici! Eravamo inseparabili! Non avevamo segreti l’uno per l’altro… o almeno era quello che pensavo fino a prima che mi facesse cadere quaggiù. Sarebbe tornato a cercarmi sfuggendo al controllo di tutti gli adulti, mi avrebbe trovato qui, incapace di trovare anche il più semplice dei sentieri, e mi avrebbe finito…

No, dovevo reagire. Dovevo pensare. Non sarei riuscito a risalire, ma cosa dovevo fare?

Potevo continuare a camminare seguendo il bordo del crepaccio, aspettando di trovare un modo più facile per risalire, ma non ero sicuro di quanta strada avrei dovuto percorrere, né se una salita più semplice esisteva davvero. E la vegetazione sembrava davvero fitta, con macchie di rovi a pararmi la strada da una parte e dall’altra. No, dovevo pensare a qualcos’altro.

Andare avanti. Giacomo me l’aveva detto, dalla cima del crepaccio si potevano vedere altri paesi, case isolate, campi, strade andando avanti. Dovevo solo scegliere una direzione e seguire sempre quella, con estrema attenzione, e prima o poi avrei trovato qualcosa. O almeno mi sarei allontanato da Giacomo. Sì, dovevo andare sempre avanti.

La mia risoluzione durò troppo poco. Feci solo qualche passo prima di trovare la strada sbarrata. Era lui. Era Giacomo. Aveva in mano un grosso bastone, e mi guardava con un’espressione quasi triste. Era dispiaciuto di trovarmi vivo, o per quello che stava per farmi? Rimasi imbambolato, incapace di dire qualsiasi cosa, incapace anche solo di provare a scappare. Fu lui a rompere il silenzio.

– La caduta non ti ha fermato. Non me l’aspettavo. Allora dovrà essere lui a decidere della tua sorte.

 

CONTINUA…

 

Michele Borgogni


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