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Ho sempre amato esplorare luoghi ed edifici disabitati, incustoditi: case, ruderi, miniere, caverne e tutto ciò che è stato abbandonato dall’uomo alla natura. Ricercavo il pericolo, in quei posti distanti dagli agglomerati urbani.
Dopo la scuola non avevo niente da fare, salivo sul motorino, a volte con amici, spesso da solo, alla ricerca di un qualcosa che mi sprigionasse adrenalina.
Mia nonna, che mi indicava le posizioni delle varie miniere della zona, mi ammoniva di stare attento alle “pirrere” perché “là ci sta l’anticristo” (l’antimonio divenuto pericolo religioso). Non avevo paura, ma speravo di averla, e così in un’escursione di un giorno qualsiasi in una miniera di zolfo qualsiasi la trovai.
Si diceva che una galleria portasse alla chiesa del paese, e precisamente alla porta del campanile, ma nessuno dei miei compaesani si era addentrato fino a quel punto. Il tunnel era pericolante, probabilmente inondato da un corso di acqua sulfurea, e forse persino crollato. Ogni tanto ci andavo per raccogliere lo zolfo, da unire al salnitro e carbonio per fare un po’ di polvere nera, costruire un ordigno, e passarmi un pomeriggio diverso. Quel giorno ero da solo, ma decisi di partire lo stesso con la moto verso la miniera di quel monte che non era troppo lontano da casa mia. Appoggiatala a un muretto, attraversai gli alberi del boschetto incamminandomi verso l’entrata. La discesa era ripida e l’accesso non superava il metro d’altezza. Avevo in dotazione uno zaino, una corda, una bottiglietta d’acqua, una torcia. Percorsi i soliti ottanta metri all’interno dello scavo in posizione quasi eretta, poi giunsi in una specie di gradinata da cui scendere e dalla quale risalire. Lì mi attesero i pipistrelli che, spaventati come al solito dalla mia presenza, svolazzarono tumultuosi da tutte le parti, e non mi scocciarono più. Mi addentrai verso l’interno. Ero abituato al silenzio, ma quello che esiste in una galleria è qualcosa che non ha pari in rapporto a quello che conosciamo d’abitudine, e causa una condizione strana d’impotenza. Ci si senti soli, abbandonati in un deserto oscuro. Il silenzio è terribile.
Quel pomeriggio, quando la torcia si spense, ebbi per la prima volta paura. Potevo tornare indietro anche a quattro zampe o strisciando, quel pezzo di galleria lo conoscevo a menadito, ma l’ansia che mi colse fu estrema. Ero da solo, senza luce, in una galleria del cazzo. Sentivo solo il battito del mio cuore e l’inspirare del mio naso, che mi aumentavano pure il fastidio. Avevo quattordici anni e cominciai a recitare quella frase che sempre mi avrebbe accompagnato in tutte le altre disavventure future e in tanti soliloqui: “Joe, sei una testa di minchia”.
A quel punto non potevo far altro che mettermi carponi e avanzare verso l’uscita. Lentamente arrivai allo spiraglio di luce, mi alzai e corsi come un disperato verso il bagliore del sole, slanciandomi fuori nell’ebbrezza di un salto di diversi metri, atterrando tra cespugli e piante di non so che genere.

Tanti anni erano passati da quella “avventura”, forse più di trenta, e di escursioni ne avevo fatte tante, da solo, in compagnia, in tutti i modi possibili e immaginabili. Era il mese di maggio, e la natura risplendeva di tutta la bellezza di cui è capace, dando calore e gioia a tutto il circondario. Un’amica ci invitò a partecipare a un trekking organizzato da un’agenzia di viaggi in una località famosa per una necropoli, un fiume spettacolare in cui poter nuotare, uno spazio incontaminato e primitivo, tra boschetti, ponti, gallerie ferroviarie abbandonate, piante di ogni genere e animali, e soprattutto caverne. Fu lì che mi ritrovai in “quel perduto silenzio” di tanti anni addietro. Mi attendeva l’esplorazione di una caverna silenziosa e oscura, ma io ancora non lo sapevo, e neanche cosa là sarebbe accaduto.

La gita iniziò di mattina presto a bordo della mia jeep. In quattro raggiungemmo il luogo antistante il percorso naturalistico previsto. Arrivati gli altri escursionisti e soprattutto la guida Enned, partimmo per quel percorso in mezzo a cave, dirupi, ruscelli, caverne. La preparazione culturale e la simpatia dell’accompagnatore furono chiare e stupefacenti sin dall’inizio. Conosceva tutti i meandri e i viottoli di quella zona, spaziando da ferree esposizioni storiche del contesto ambientale a divagazioni culturali generali. Scendendo verso il torrente, cominciammo a notare un paesaggio meraviglioso, con alberi e arbusti ombrosi che mai ci saremmo aspettati di trovare così rigogliosi in quella valle tanto scoscesa e a tratti arida.
Il fiume era freddo, ma nonostante ciò alcuni di noi fecero il bagno con piacere. Dopo aver visitato diverse abitazioni primitive scavate nella roccia da uomini morti migliaia di anni addietro, cominciammo la visita alle grotte. Tutte erano abbastanza brevi e larghe, e anche un qualsiasi claustrofobico non avrebbe avuto problemi di sorta. L’ultima che dovevamo visitare era la famosa “Caverna del silenzio”. Arrivarci non fu facile, perché il percorso era scosceso, stretto, irto di spine. L’entrata dava su un dirupo, con uno spazio antistante di pochi metri, ma sufficiente a farci bivaccare accovacciati o seduti. I primi tre metri erano da percorrere strisciando, ma poi ci si poteva rialzare e proseguire in posizione eretta. Ovviamente da lì in poi il buio totale e il silenzio sovrastavano ogni altra caratteristica dell’antro. Io entrai per primo, illuminando con la mia torcia i primi passi di tutti gli altri escursionisti. Lentamente e muti proseguimmo verso l’interno. Il tratto era viscido, umido, persino tetro, vuoto di ogni ricordo del mondo esterno, privo di ogni esistenza vegetale o animale, e non c’erano neanche i temuti pipistrelli o bestie simili.
La guida cominciò a parlare delicatamente e a voce bassa, quasi con rispetto funereo, spettrale dovuto all’eternità della grotta, si profuse in cenni storici e archeologici, soddisfacendo sapientemente ogni nostra possibile domanda. Ascoltavamo pazienti, attenti a ogni illustrazione, procedendo lentamente verso l’interno. Fino a circa cento metri dopo l’entrata nessuno di noi ebbe timore alcuno, sovrastati dalla particolarità artistica e naturale di quel budello scavato in un tempo remoto da un fiume proveniente dalle viscere della terra. A illuminare l’ignoto c’erano le nostre torce, che irradiavano lustro in ogni angolo più recondito.
Passo dopo passo, superando anfratti e strettoie, arrivammo a un punto di riunione, forse il più largo di tutta la galleria, destinato da anni e consuetudini a un possibile momento di raccolta, di pausa, di contatto meditativo con il luogo in cui stazionare.
Enned, dopo un’altra erudita e apprezzata divulgazione storica, ci chiese di spegnere le torce, per immergerci completamente nel buio e nella quiete di quell’angolo sperduto della natura. La totalità dell’assenza del rumore e la cecità più assoluta, dopo qualche minuto, cominciarono a pervadere e penetrare nell’aria. Ne sentivamo la presenza, come se si trattasse di un’entità, quasi addirittura corporea, come se si aggirasse pronta a toccarci in qualche modo. Uno spirito. Sentivamo l’alito di una presenza immateriale, o forse era il respiro di ciascuno di noi, che sembrava divenire più forte e rumoroso per il sopravvenire di un non so che di soffocante, simile ad ansia. Qualcuno adesso aveva paura, e nell’oscurità cercò la mano o il corpo di qualche amico. A quel punto, la guida, che aveva percepito qualcosa di strano in noi, ordinò di riaccendere le torce, ma nessuna riuscì ad attivarsi.
Dopo qualche secondo il terrore esplose nelle grida stridule di qualche ragazza che cominciava a sentire il peso dell’impotenza, la percezione spaventosa della solitudine, generando un isterismo di massa che divenne panico, dilagando velocemente tra tutti gli escursionisti. Ora gridavano tutti. Ben presto taluni cercarono di scappare “da qualche parte”, salendo sui compagni, sbattendo la testa in qualche pietra, calpestando qualche naso, ruzzolando maldestramente a terra o su qualche corpo. Era il caos, che divenne ferocia pura: pugni e colpi arrivavano all’improvviso da tutte le parti.
Qualcuno mi morse, cercando di strappare un pezzo di carne dal braccio. Sentivo la mascella serrata al muscolo strattonarlo come una bestia affamata. Ma io l’afferrai per i capelli e lo trascinai, sbattendolo ripetutamente contro una roccia, o forse era una testa di qualche amico. Poi il sudore, un liquido fetente, mi bagnò il viso, mi finì negli occhi, bruciando come acido. E gridai pure io, menando calci in aria in quel buio onnivoro. Non c’era via uscita da quella bolgia. A un certo momento il trambusto cominciò a scemare. Si udivano però lamenti da tutte le parti, e pianti di esseri che sembravano donne.
Io stavo addossato alla parete, accanto a me adesso non c’era più nessuno. Probabilmente mi ero distanziato dal mucchio. Pensai di allontanarmi ancora di più. Rasentando la fiancata, sarei arrivato di certo da qualche parte, forse all’uscita o mi sarei spinto ancora più all’interno. Strisciando come un verme, giunsi dove non udivo più alcuna voce. Lì ero completamente solo, potevo riposarmi. All’improvviso, urla strazianti ripresero a sorgere, intonando un coro stonato. Divennero forti e laceranti. Qualcuno laggiù stava morendo. Sentivo i digrignare dei denti, forse di un grosso animale, feroce indubbiamente, divorare e spaccare ossa tra le sue fauci. Ripresi come un ossesso la mia fuga, questa volta alzandomi in piedi, appoggiando e strisciando alla cieca il braccio destro alla grotta. Quasi correvo. Mi voltai e vidi due fari che mi seguivano, e non erano torce; sembravano solo gli occhi immensi di una bestia che sibila. Corsi ancora più velocemente, e finalmente arrivai a quella che sembrava il varco della caverna. Mi buttai a terra, raggiunsi l’uscita. Ero salvo, alla luce, nel mondo dei vivi. Ripresi fiato appoggiato alla ringhiera che delimita il burrone, guardando quella grotta da cui i miei compagni non sarebbero mai più venuti fuori. Dal mio zaino che stava per terra estrassi una bottiglia d’acqua e bevvi. Un attimo dopo un enorme serpente, forse preistorico, usciva dalla caverna e m’inghiottiva. Finimmo giù nel burrone, ruzzolando insieme. Io ero ancora vivo nel suo corpo, quando estrassi il pugnale dallo zaino iniziando a ucciderlo, guadagnando la vita attraverso le sue carni.
Uscito dal suo ventre mi ritrovai di nuovo nella caverna, solo, disorientato, disteso a terra boccheggiante e ricoperto di liquido viscoso. Tentai di alzarmi, ma non avevo più le gambe. Cercai di afferrare qualche spuntone di roccia per tirarmi su, ma non avevo più le braccia. Urlai, ma emisi un sibilo stridente. Il mio corpo poteva solo strisciare tra gli anfratti umidi e bui del tunnel. E così compresi che ora ero io il serpente, il guardiano del tunnel, l’essere immondo che vivrà in eterno, senza più vedere la luce, appostato tra le rocce in perenne attesa di qualche idiota spericolato, annoiato della vita e in cerca di emozioni.

 

 

Joe Oberhausen-Valdez e Nicola Furia


 

 

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