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Il lento volo di un falco

 

Mentre fuori sibilava un freddo silenzioso, che entrava dalla pelle e spaccava le vene, guardavo di fronte a me una rastrelliera di pipe. Una di queste, speciale, dalle venature “fiammate”, la stavo ancora fumando, disturbando con nuvole tossiche la mia lupa accucciata sul divano, che ormai era suo. All’improvviso ebbe origine un rumore lontano, che pian piano diventava melodia, poi più nitido, più rimbombante, quasi infrangeva i vetri…  era il suono di un cannone.

Tiri di artiglieria cominciavano a tuonare da tutte le parti, ordigni cadevano dal cielo,  la paura mi assaliva, come se temessi quell’orchestra. Il cane mi guardò atterrito, e all’unisono scattammo, io dalla sedia e lui dal sofà. Spalancai la botola della cantina, ci buttammo dentro, mentre la costruzione si accasciava su di noi. Il comignolo della stufa penetrò dentro casa e sfondò il portello, bloccando ogni uscita da quel varco. Cazzo ero prigioniero.

Il “rifugio” sotterraneo aveva in dotazione miseri comfort, pochi viveri inscatolati, bottiglie d’acqua, e altri oggetti e vettovaglie irrilevanti. Il pavimento era lurido, a stento riconoscevo la “carcassa” di uno scarafaggio stecchito da qualche parte. Mi buttai sul letto, di fianco a una cadente libreria o scaffale antiumidità con decine di libri logori e fradici, aspettando che cessasse ogni rumore, ogni sgretolamento dell’edificio. Dopo qualche ora non udivo più niente. Ero quasi al buio, in una semioscurità allietata dalla luce di una candela rossa posta su un candelabro in ferro battuto. Era laggiù da anni, come la cera di quella fiaccola. Di fronte al letto ci stava un divano in abete, che mia madre aveva comprato quasi nel secolo scorso, ora ricoperto da un tessuto logoro e puzzolente. Io lo adoravo, profumava ancora di tanti ricordi svaniti, sfumati, fatati, ossia “c’era ancora il mio odore” perenne,  impresso ancora caldo, forse infinito. Memorie quasi celate da un polvere ventennale. Eppure, alla sua vista tutto mi si palesò vivo, recente come se fosse oggi. Ed ecco che l’eco di quella voce  rinasceva, riemergeva, e infine risaliva da un legno stagionato per tramutarsi in una presenza reale, l’effimera percezione di un ricordo che sembrava un corpo tangibile.

Disteso sul letto, pensavo e ripensavo a come uscire da quella gabbia scavata qualche metro sottoterra. Le pareti erano in pietra lavica accastonate le une sulle altre, e poi murate. Avrei dovute rompere questo primo muro e poi scavare un tunnel attraverso un terreno argilloso per giungere in superficie. Ma non avevo attrezzi, e la mia permanenza lì sotto non sarebbe stata possibile se non per poco tempo. Le candele si sarebbero spente, sarei rimasto confinato al buio, e poi sarei morto. Va be’, sarei morto lo stesso. Ma ecco che il candelabro costruito da mio nonno si propose come grimaldello risolutivo, un atto estemporaneo di un avo che diveniva l’ariete che mi avrebbe aperto una nuova esistenza, verso il vecchio cielo e uno spazio sconfinato. Un pezzo forgiato da mani sapienti, defunte, scomparse, che adesso veniva in mio soccorso, quasi a resuscitare una stirpe che non si arresta mai, come simbolo della continuazione a tutti i costi di una razza che non sarebbe dovuta morire. E quell’oggetto non era lì per caso.

Tolsi la candela, la spensi e iniziai lo scavo. La parete che presi di mira era in direzione del giardino. Sarei sbucato sotto il prato inglese. La pietra era dura, difficilmente scalfibile, quasi eterna. Estraevo solo briciole o polvere di un materiale posto lì a seppellirmi. Ma non mi sarei mai arreso… mai, sarei riuscito a portare fuori sia me che il cane, una femmina di un incrocio con un pastore tedesco, che qualche bastardo aveva abbandonato vicino al mio giardino, e fortunatamente per lei, lassù, al di là del mio recinto, c’ero io ad accoglierla. Il cane migliore del mondo, come ogni cane. Ogni tanto si avvicinava a me che davo colpi di candelabro al muro, mi leccava, e poi tornava paziente a sedersi da qualche parte nel buio. Sapeva che stavo lavorando pure per lei.

Dopo qualche ora ero riuscito a disancorare solo una grossa pietra, ma togliere le altre a quel punto non fu difficile. Spaccai la malta retrostante con un furia insperata, come un pazzo che dà testate al vento, e nonostante fossi stanco, sudato e affamato, continuai. Adesso sentivo l’umidità del terreno esterno che mi rinvigoriva, mi inoculava nuovo ardore. Era il profumo della brezza  notturna che iniziavo a immaginare nella mia mente. Scavai, colpii, affondai le mani lorde in quella sostanza bagnata che sembrava friabile. A quel punto mi accovacciai a terra a prendere fiato. Solika, la cagnetta, venne a strofinarsi felicemente. Ce l’avremmo fatta, lo sentiva, quasi rideva. Ormai avevo creato una breccia. Continuai a estrarre terra su terra, finché non entrai con tutto il corpo dentro il tunnel; con le mani buttavo i detriti verso i piedi e li spingevo giù in cantina. Goffamente arrivai agli ultimi centimetri che mi separavano dall’erba del prato. A quel punto un ciuffo con la sua zolla mi restò tra le mani. Ero salvo. Sbucai all’aria illuminato da una luna abbagliante, e appresso a me comparve Solika.

Era di nuovo notte, faceva freddo ma almeno respiravo come un essere umano. La casa era crollata, tutto distrutto, ma io me ne fottevo. Da qualche parte in garage avevo la tenda per le emergenze e in ogni caso era una struttura ancora integra, scavata nella pietra lavica. Indistruttibile. Per scompaginarla sarebbe dovuto sprofondare il vulcano. Lì dentro avrei potuto piazzare un giaciglio, o al limite avrei allargato il tunnel che avevo appena scavato, per utilizzare la cantina e dormirci dentro. Era pur sempre un monolocale e mi sarebbe bastato. Nella rimessa avevo attrezzi che mi sarebbero stati utili per “sopravvivere”, almeno così pensai in quell’istante. Ammesso che avessi presto capito cosa fosse successo quella notte. Ormai ero abituato ai bombardamenti, ai rifugi, a scappare, a catapultarmi in un’altra terra, a distruggere e ricostruire. Sparire e ricomparire. Ma un nodo strano mi strinse la gola, una malinconia cominciò a prendere forma nell’anima, e a risalire verso gli occhi. Ritornava quel tempo sparito. E mi ricordò quell’altura. Ma qui e adesso non ero più sul colle vicino al parco di Hiyajima, e quella città che scorgevo laggiù non era di certo la mia Hiroshima.

Ormai era quasi l’alba, non avevo più sonno. Mi affliggeva solo una voglia tremenda di un caffè ristoratore, ma a quell’ora non avrei saputo dove trovare un fornello e una caffettiera. La voglia di fumare era vorace, purtroppo le pipe erano rimaste sepolte nel crollo della casa, eppur questo desiderio lo avrei potuto rendere possibile. Il garage brulicava di vari abbozzi di pipe preforate, qualche avanzo di tabacco, e centinaia di accendini. Non avendo più le chiavi, forzai la porta col vecchio candelabro, scardinai le cerniere. Più che un attrezzo per illuminare aveva le sembianze di un piede di porco. E lo era. Dentro presi la prima pipa di radica di erica arborea che mi capitò fra le mani. Accesi una torcia, piazzai l’abbozzo su un paletto stretto nella morsa, con una raspa iniziai a dare forma a quella pipa. Non avrei mai fumato un manufatto amorfo. Dopo una mezz’ora ero riuscito a dare un volto eccellente a quel legno. Viveva. Lo riempii di un tabacco alla vaniglia, mi diressi verso la rete del perimetro esterno, guardai in lontananza quello che doveva essere il mare all’orizzonte, e finalmente fumai.

Contemplando le rovine e le distese infinite all’intorno, mi accorgevo di come fossero l’antitesi di uno stesso moto incessante. Il ciclo continuo di una nuova fine e di un rinato inizio, il susseguirsi di stagioni aride e poi fertili, il pianto che fa sempre posto all’euforia, che diviene esaltazione e che infine deflagra in felicità, seppure effimera. Un’incessante riapparizione dell’identico sapore magico, vigoroso, che ha ogni esistenza dopo una palingenesi.

Con le prime luci dell’alba apparivano visibili miriadi di ville, case, edifici distrutti, alberi e terreni abbattuti, devastati, bruciati da qualche fuoco maledetto. Sembrava una natura arsa da un magma piovuto da un aereo, dall’alto, e comunque venuto giù da cime inaccessibili. Non udivo versi e rumori di esseri viventi. Gli uccelli erano scomparsi. Alle orecchie giungeva solo il vento che stormiva tra le piante. In lontananza si stagliavano colonne di fumo, che si muovevano a guisa di serpente o di tromba d’aria che si dondola ubriaca seguendo direzioni incomprensibili. Qualcosa di esorbitante aveva raso al suolo ogni costruzione, scompaginato la natura all’intorno. Che fosse fuoco lo intuivo, che fosse eccelso era manifesto.

Avrei voluto percorrere tutto quel viale, giungere al cancello verde, oltrepassarlo, immettermi nella strada maestra, seguire la via che mena al paese, che porta tra la folla, tra il brulicare di voci del mercato, delle chiese, dei bar; sentire il suono della vita che si cosparge per le strade. Ma restai fermo. Non me ne fotteva niente quando sapevo che la gente esisteva, figuriamoci ora. Avevo una certezza. Laggiù non avrei trovato più niente di vitale, se non vermi, bruchi e farfalle. Ma neanche questo. Tutto ciò che era al di fuori di un qualche rifugio sotterraneo era stato annientato da una Macchina tremenda.

Non so che nome avesse o cosa fosse, ma nei dintorni era sicuramente passata, trasvolando veloce e ineluttabile, e poi era scomparsa.

Posto che fosse possibile, una sensazione di solitudine iniziava a circondarmi, un vuoto universale, la paura di essere questa volta veramente da solo, abbandonato e superstite in un luogo che aveva le sembianze delle lapidi. All’interno del mio cancello il perimetro racchiudeva ora un cimitero, e al di là di quello si estendevano, secondo una valutazione deduttiva,  a dismisura, sconfinate solo pietre tombali e resti di esseri inanimati.

Da molti anni vivevo senza pensare a illusioni varie, speranze e senza una vago immaginare di un futuro diverso da quello che il giorno stesso avrebbe potuto offrirmi. Niente sogni, niente desideri, niente ambizioni solari e scopi finali, o similari. Non andavo al di là della concezione reale, pessimista, sterile, del dì che nasce all’alba e finisce al crepuscolo. Quello che avveniva prima e dopo era solo un concetto dannoso e insensato. Domani sarei morto, in un modo o nell’altro, sarei cessato come corpo e come animo, una decomposizione lenta e poi una fine improvvisa, e inesorabile. A prima vista, e senza entrare nel buio delle mie concezioni metafisiche e persino fisiche, sarebbe sembrato, e potrebbe fraintendersi agevolmente, un comportamento inutile, anaffettivo, doloroso. Non differente da quello di qualsiasi rettile che cerca il cibo e il calore del sole. Un appagamento istintivo senza scopi e senza ardore. Una bestia lontana dagli uomini. Ma non era proprio così.

In quell’istante un boato mi scosse da quest’introspezione impensata ed effimera, insensata, un soliloquio che non serviva a un cazzo. L’istinto di sopravvivenza mi acchiappò per le gambe, gridai al cane e corremmo verso il tunnel. Vi strisciai con tutta la velocità possibile e sprofondai di nuovo sotto terra, salvandomi da qualsiasi cosa ci fosse di portentoso e temibile in quel fragore che continuava a diffondersi all’esterno. Mi riparai in un angolo della cantina, il cane si strinse a me, si accovacciò. Era tutto buio, e un freddo umido mi attanagliava. Coglievo solo il calore “umano” del mio animale. E già questo era sufficiente, ma non bastava. Volevo un caffè. D’un tratto una luce fece capolino dal tunnel, e si proiettò sul muro dirimpetto, illuminò un quadro. Era un cane, Argo, nella sua straordinaria bellezza e giovinezza, quando giocava con me spensierato, sereno, e ci rincorrevamo nel giardino dei loti.

Quella luce divenne fragorosa, frastornante, infine assordante, come il rombo di un aereo che scaricava fiamme e caos da motori immani all’interno della cantina. Mi tappai le orecchie con le mani, alzandomi in piedi; il cane sembrava impazzire, abbaiò, si girò si rotolò sul pavimento, sbattendo sul divano, sul muro, quasi “piangeva”. Il solaio tremò, vibrò come se fosse attraversato da un cingolato, o comunque da un mezzo possente e demolitore. La curiosità mi strappò alla paura, decisi di rischiare. Volevo venire a capo di questo rebus. Mi armai del solito candelabro e riemersi dal tunnel. Sbucai al sole che riscaldava come in un’estate torrida, infinita e brillante. All’intorno tutto ora taceva, e a perdita d’occhio non si vedeva un solo mostro meccanico, né aerei né draghi solcavano il cielo e la terra. Erano forse l’apparenza e il disincanto di un’angoscia appena passata.

Scrutando il viale, il giardino, e i terreni limitrofi mi accorsi di come adesso ogni angolo più evidente e più nascosto zampillasse ridente di fiori ed alberi in piena estasi. Il circondario appariva come un eden, la meraviglia dei giorni passati, degli anni trascorsi in cui non era mai variato niente.

Una colomba su un albero attendeva che un falco la predasse. Lo vidi giungere da lontano, si slanciava in lentezza sulla bestia accovacciata, in attesa lì da ore. Ma era troppo fiacco e la colomba decise di volare,  si dileguò nel nulla, più veloce del rapace, più improvvisa di quel che la sua natura potesse concederle. Attimi di straordinaria e prodigiosa eccezionalità. Quasi un adeguamento, assurdo e inverosimile, alla differenza abissale tra la ferocia dell’uno e la delicatezza simbolica, rara e raffinata dell’altra. E così mi accorsi che non era un semplice volo, forse era una caduta, e in un modo o nell’altro… un restringimento di quel maledetto vuoto… che agli albori odorava di lentezza, impazienza, dal gusto logorante e inesauribile. In quell’attimo finiva quella vaga attesa che non era un caso, un semplice vento passeggero, ma una corrente ascensionale, una conferma sicura e lungimirante dell’affermazione dell’urgenza e necessità di chi spicca il volo al di là di un qualsiasi ramo, per giungere al proprio nido, o comunque in salvo. Quell’attimo infinito era il ponte tra due rive, seppur sospeso in alto, pericoloso e stretto. Era una passerella meravigliosa. Il compiersi del divenire, l’approdo o il distacco di due esseri dissimili, ma in simbiosi perché opposti, in un assidua rivalutazione e rigenerazione, un amalgama di ciò che si è voluti essere. L’aspirazione e il risucchio nell’uragano dell’istinto differente, che diviene un incastro univoco, espressione viva della fusione di temperamenti e animi inconciliabili. Il cuore che accelera nel superamento di quel limite supremo in cui come baluardo ostile c’è la paura. E lassù c’è sempre un volo o una caduta.

 

Un uomo zappava nel giardino confinante. Lo sentivo benissimo. Qualcuno era perciò vivo. Corsi su per le scale e m’impietrii al cospetto della mia casa che inalterata e integra si ergeva sui suoi pilastri. La porta era aperta. Rimasi frastornato, intontito e inebetito. Vi entrai. Raggiunsi la cucina, là dentro la caffettiera mi attendeva da decenni. Finalmente preparai quel tanto agognato caffè. Lo bevvi, come ero solito fare, fuori sul balcone, seduto su una sbiadita sedia verde in plastica, poggiando le gambe sulla ringhiera verde. Ed ecco che miravo un futuro che si estendeva da quella valle fino alla costa, ancora una volta solo, quasi distaccato da un mondo che sarebbe vissuto ancora dopo di me, e io me ne esiliavo per l’ultima volta. Riflettevo e mi riposavo, come osservando un quadro appeso in quel panorama, da milioni di anni. Avrei potuto modificare ogni singolo attimo di quel che sarebbe avvenuto, aumentare o diminuire il calore di quella vampata che sentivo ruggire in me; avrei voluto che quell’istante non degenerasse mai, che si fermasse e si nutrisse della sua invariabilità. Attendevo che l’eternità fosse lì e non mutasse. E così avvenne.

Mi accesi la pipa e guardai il mare. Non era cambiato niente, non era mai cambiato niente.

 

Joe Oberhausen-Valdez

 


 


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