racconto

Il lampo
(parte seconda)

 

Avevo appena finito di farmi la barba e quel maledetto brufolo comparve mentre mi osservavo. Presi un ago e cercai di “svuotarlo”, ma era maledettamente duro, non riuscivo. Mi prudeva, per cui decisi di andare in garage a cercare il cutter per estirparlo. Scelsi una lama nuova, ritornai in bagno. Davanti allo specchio, contemplavo quel pezzo di carne che sarebbe saltato. La lama era affilata, non ebbi difficoltà a incidere. Il freddo del taglio durò un attimo, poi tamponai con un batuffolo di acqua ossigenata.

I cani stavano per abbattere il vetro della porta della cucina, era la loro ora di cena, lo sapevano, lo sapevo pure io, e mi chiamavano.

Fuori era già buio. Il tavolo verde, su cui poggiavo le ciotole per dividere il pasto, non si vedeva neanche. Uscendo in terrazza, qualcosa di minuscolo, vivo, mi saltò addosso, dalle spalle andò sulla testa, l’acchiappai e lo buttai per terra. Era un geco impaurito. Lo salvai a stento dalla voracità di Solika che stava per inghiottirselo. Con una pedata lo scaraventai nel giardino e lì si perse. Servii i miei “carcerieri” e mi preparai per uscire.

Il cielo non prometteva niente di buono, non prometteva mai nulla. Era nero, silente e minaccioso. Da lì a poco avrebbe diluviato, e grazie a Dio non ero ancora solubile in acqua. Dovevo per forza raggiungere il centro commerciale più vicino per comprare scarpe da ginnastica invernali, poiché quelle che avevo erano proprio estive, mi si congelavano i piedi in un autunno che sembrava inverno inoltrato.

In dieci minuti raggiunsi il piazzale sul quale pochi anni addietro avevano edificato un mostro di cemento nelle cui fauci vivono tantissimi negozi. E quando uno si sente solo non c’è posto migliore in cui trovare un gregge di gente, anche se io non mi sentivo mai solo. Non importa socializzare, basta già il conversare delle cassiere, le urla dei bambini, i carrelli che stridono sulle rotelle scassate, bottiglie di olio e di vino che tintinnano fra loro. Ecco, lì c’è sempre vita. A me della loro non interessava, io cercavo le mie scarpe, quindi mi diressi proprio al negozio che conoscevo.

Lo scaffale che mi riguardava era proprio di fronte a me, lo avevo notato da fuori. All’entrata fui preso in “consegna” da un’addetta, che mi seguì per tutto il tempo che rimasi nel suo territorio. Mi chiese se avessi bisogno di lei. Io risposi di no, perché era bruttissima, ma non glielo dissi. Era magra, slanciata, con un viso di una volgarità primitiva. Avrebbe potuto vendere pesce al porto. Ciò che più non sopportavo era il suo accento marcato. Le sue consonanti sembravano martellate sulla ghisa.

Feci diversi giri, però non trovai le calzature che cercavo: troppo costose o troppo anonime. Io amavo colori sgargianti, mentre queste apparivano con la stessa vivacità della tinta di una bara. Avrei visitato un altro negozio.

Fuori pioveva a dirotto. L’allerta meteo era stata diramata, evento normale in quella montagna. Di conseguenza non mi preoccupai più di tanto, anche se non vedevo l’ora di tornare a casa.

Dal bancone del supermercato avevo scelto la mia cena solitaria: nella busta della spesa giaceva una fetta di salmone che avrei cucinato alla griglia. Corsi verso la macchina bagnandomi un po’ (odiavo l’ombrello), accesi il motore e di fronte a me osservai con piacere la colata di fuoco che scendeva dal mio versante del vulcano. Era immensamente bella e luminosa. Mentre contemplavo quella magnificenza, d’un tratto qualcosa mosse la mia auto in avanti e poi indietro, e non ero io col piede sull’acceleratore. Il movimento diventò sussultorio e la macchina iniziò a danzare, sempre più forte, talmente forte che con la testa stavo quasi per sfondare il tettuccio. Ebbi una certa paura. Non me l’aspettavo. Un’enorme massa di armenti si riversò fuori dalla struttura correndo e scivolando sull’asfalto viscido; bambini, vecchi, donne si accalcarono gli uni sugli altri, schiacciandosi come forsennati, nell’impeto della disperazione e della propria salvezza. Gridavano come disperati, tutti alla ricerca dello spazio aperto, volevano vivere. E pure io. Ingranai la prima e lasciai quel posto, pieno di alberi che avrebbero potuto schiacciarmi, se il terremoto li avesse sradicati.

Sulla via del ritorno m’incolonnai in una smisurata fila di auto che faceva il mio stesso tragitto. Dopo un’ora circa arrivai a casa. Il cancello della mia abitazione era spalancato. Forse lo avevo lasciato socchiuso e non era possibile. Controllavo sempre che fosse chiuso, almeno con una mandata. Poi mi accorsi che la serratura era stata squassata, probabilmente da quel traballamento tellurico di notevole intensità. Alla fine del vialetto la porta di sicurezza per i miei cani però era intatta. Era in legno su pali cementati a terra e aveva ammortizzato i contraccolpi di quella danza inattesa. I quadrupedi erano al sicuro oltre la recinzione. L’unica cosa che mi importasse veramente. Il cielo sarebbe potuto crollare, il mondo sprofondare in uno straordinario crepaccio, l’umanità sparire, ma loro no. Loro dovevano sopravvivere.

Controllai velocemente la casa all’interno e all’esterno. Era tutto apparentemente normale.

Dopo aver cenato mi piazzai sul divano, pensai e riflettei su quell’evento inatteso che era stato terrificante ma mai quanto gli accadimenti che si susseguirono l’indomani, quando lo tsunami provocato da un corpo celeste, forse un meteorite gigantesco, un asteroide, o qualcosa di simile (che cazzo ne so, mica ero un astronomo), mi spinse a mettermi in salvo sul vulcano. Vidi solo pioggia e un bagliore accecante, l’acqua del mare che si mischiava al diluvio, il cielo che sembrava un oceano. Era una visione distorta, sottosopra, o probabilmente effettiva… nonostante ciò fu inaspettata e incomprensibile.

 

Ora o allora, dalla mia casetta diroccata in montagna guardavo il mare, a venti passi di distanza, quello che un tempo era circa duemila metri sotto di me. Sembrava un incubo, eppure era vero, sembrava di vivere in una landa desolata e pure questo era vero. La volta celeste aveva le sembianze dell’apocalisse, grigia tetra oscura minacciosa e ostile.

Avevo fame di carne, da cuocere alla brace nel camino, avrei gustato qualsiasi bestia commestibile di stanza nel territorio, come qualche lepre. Preparai una semplice trappola posizionando un ramo tra due alberi legando le estremità con una corda di nylon. Con un laccio feci un semplice cappio e lo legai nel centro del bastone appoggiandolo a terra, grande abbastanza per un piccolo mammifero, ma non quanto la testa dei miei cani. Raccolsi qualche fungo e un po’ di erba e posizionai il tutto su due cumoli l’uno di fronte all’altro rispetto al bastone, che lasciai al centro col nodo scorsoio. Dovevo solo aspettare. Qualche bestia a me gradita sarebbe passata prima o poi di lì. Non dovetti aspettare molto, perché la mattina seguente proprio una lepre mi si era donata come pranzo squisito. Liberai il corpo dell’animale che si era strangolato nel tentativo di sfuggire alla presa mortale al collo. La distesi a terra a ventre in su, tagliando dalla gola alla coda, incisi le zampe, infilzai la bestia sotto la pelle e cominciai a scuoiare. Estrassi le interiora che non erano di mio gusto e le diedi ai cani. Si ricrearono. Poi appesi la lepre su un ramo legando le zampe posteriori e attesi che si dissanguasse dal taglio alla gola. La divorai a cena: una leccornia sublime. Non avevo il sale per condirla, ma tanto ormai mangiavo da anni senza usarlo, in compenso insaporii con del rosmarino che cresceva a cespugli immensi non lontano dalla mia nuova dimora.

La mattina seguente andai verso la macchina, dovevo pur muovermi verso la sommità per verificare che fine avessero fatto quelli che probabilmente si erano salvati – meglio di me – nelle loro baite e nell’albergo. La via era come sempre perfetta, solo che arrivando a qualche chilometro dalla meta prefissa mi accorsi che era cambiato qualcosa nel bivio che porta a destra verso il paese *** e a sinistra al Rifugio. La diramazione infatti era sepolta e anche la strada. Scesi dal mezzo e proseguii a piedi. Davanti a me si parava un muro roccioso e scosceso che aveva sotterrato tutto quel che ricordavo. Mi arrampicai tra le pietre, facilmente, andando a sinistra verso il piazzale. In meno di due ore raggiunsi il Rifugio, o meglio vi ero plausibilmente sopra, sulla frana che aveva sepolto negozietti, ristorante, funivia, ossia avevo ricoperto ogni segno di civiltà. Si stendeva solo una vasta area di pietre, sabbia, alberi trascinati da uno smottamento colossale. Guardai verso la cima del vulcano, e non la vidi. Stavo già nella parte più alta, eccettuata una sommità che vedevo malamente a qualche chilometro, in lontananza. Il cocuzzolo si era trascinato abbasso. Spuntava guardando a est, dalla nuova sponda del mare, amalgamato alla vecchia parete che ormai non riconoscevo. Credevo di sognare, un incubo in un mondo apparente o in una nuova realtà. E quindi?! Quindi ripresi lo zaino che avevo poggiato a terra e me ne ritornai alla macchina, e poi verso la mia stamberga. Scendendo lentamente, decisi di fermarmi per esplorare una delle poche costruzioni che spesso avevo incontrato. Mi fermai ad un cancello, lo scavalcai. Il vialetto pieno di erbaccia si stagliava tra i due lati del bosco. La casa era ovviamente abitata solo d’estate o saltuariamente per qualche scampagnata. Il portone era di ferro, chiuso con un grosso lucchetto. Andai in macchina e presi il cric. Cominciai a scardinare il catenaccio con grosse mazzate, e, poiché era vistosamente arrugginito, si accasciò sotto la furia della mia violenza. Diverse pedate alla porta eliminarono la serratura restante. Dentro c’era una puzza di chiuso e umidità. Spalancai una finestra ed entrò la brezza più rinfrescante. Perquisendo la casa non trovai niente che potesse essermi utile. In un ripostiglio nel muro senza sportelli, tende, o altre coperture, notai qualche bottiglia di vino, e miracolo di qualche santo inesistente: una bottiglia di grappa. Non ci potevo credere. Non so che giorno fosse o ormai dove fossi, so solo che presi la bottiglia, mi sdraiai su un divano lercio e impolverato, guardai al di fuori della finestra. Il cielo era una fantasia popolare, la speranza un’antica reminiscenza. Vedevo unicamente alberi e sentivo l’unico essere presente: un silenzio terrificante. Mi attaccai al collo della grappa e bevvi. Uno due tre, quattromila sorsi e la realtà scomparve.

Quando mi risvegliai era già sera. Ero un solitario, e lo fui pure in quella stanza, senza amici, senza la compagnia di un essere umano, senza il rumore di due occhi che mi guardano, e soprattutto senza Argo e Solika, e mi mancavano. L’eremo era una condizione mentale, appagante, ricercata, sensazionale, imperdibile. Ma loro avevano bisogno di me ed io di loro, almeno da vivi. Dopo, il mondo si sarebbe potuto fottere, se non si era già fottuto.

Uscii dalla casa ancora ubriaco, scavalcai con un balzo il cancello, accesi il motore dell’auto e corsi verso il mio riparo. Il cielo nero non facilitava la guida, non si vedeva la strada, non si vedeva niente. Schiacciando sull’acceleratore non avvistai la curva a gomito, l’auto volò su un dirupo qualsiasi e io pure. In un attimo vidi in faccia la fine, mi ritornarono in mente i ricordi di una vita, forse la loro inutilità e insieme la loro bellezza, la malinconia delle gioie effimere, il sorriso sardonico di mio padre, la presenza inalienabile di mia madre, la stronzaggine della mia sorellina, i miei gatti, il cane Jack, un grande giardino, il sole che illuminava la terrazza e la mia stanza, i libri della biblioteca, il garage con la sua morsa sul bancone, vidi veloce tutto un respiro in un breve lampo. Vidi la morte in un solo istante.

 

Joe Oberhausen-Valdez

 


 


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