Racconti

DEEP BLACK

di Caterina Schiraldi

Capitolo IV

 

La fine non era ancora giunta. La vita scorreva ancora nelle sue vene.

Lo intuiva dal fatto che provava un dolore immenso, diffuso e pulsante in tutte le membra. Se fosse stato… morto la sofferenza sarebbe cessata. Almeno così dicevano. Il suo corpo era devastato, ferito, livido, provato. Perdeva sangue, ne sentiva il sapore in bocca e ne percepiva il calore liquido lungo tutto il corpo. Ma era ancora vivo. E non ricordava cosa fosse successo…

Jo tentò di sollevare lentamente le palpebre pesanti, nonostante la spossatezza. Si sentiva come se un carrarmato gli fosse passato sopra il corpo, frantumandogli ogni singolo osso. Le fitte lancinanti al capo erano sparite ma, in compenso, una forte nausea ne aveva preso il posto. Aprì gli occhi una volta, ma la luce lo ferì con la potenza di una lama arroventata, e immediatamente tornò a chiuderli.

Sentiva di essere disteso sopra una superficie morbida e umida. Sembrava erba dall’odore. Sotto la guancia avvertiva il solletico del muschio. Provò allora ad esercitare l’udito per cogliere gli strani suoni attorno a lui. Non percepiva nessuna voce umana ma uno strano ronfare, accompagnato ad un leggero fruscio e alla sensazione di movimento.

Qualcosa si muoveva attorno al suo corpo martoriato. E non si trattava di esseri umani. L’odore che giungeva alle sue narici era selvatico. Il suo cuore cominciò a pompare più rapidamente il sangue per l’adrenalina e, in conseguenza di ciò, i rumori attorno a lui aumentarono e la sensazione di essere circondato da qualcosa si acuì.

Jo tentò di rimanere immobile ma, evidentemente, qualunque cosa fosse vicino a lui, percepiva il battito convulso del suo cuore. Inghiottì penosamente. La paura era di nuovo padrona di lui. Il dolore era passato in secondo piano.

Serrò convulsamente le mani che teneva aperte sopra la testa e, a quel movimento appena accennato, attorno a lui tutto diventò silenzio. Un silenzio assordante. Peggiore dei fruscii avvertiti fino ad un attimo prima.

E poi…

“Jo!”, si sentì chiamare da una voce sconosciuta, “apri gli occhi”.

L’invito rassicurante e dalla voce umana giunse inaspettato e confortante.

Non se lo fece ripetere due volte e sollevò le palpebre di scatto. Ci mise qualche secondo per abituarsi e mettere a fuoco le immagini.

Si scoprì sdraiato supino con le braccia in alto, in un piccolo spiazzo circondato di vegetazione. Vedeva le fronde degli alberi formare un cerchio quasi perfetto. Un uomo, piuttosto anziano, era chino verso di lui. Lo guardava in maniera tranquilla ma consapevole. Il suo sguardo sembrava quello di un parente preoccupato ma Jo non aveva mai visto quel volto. Chi era?

“Non mi riconosci?”, gli domandò all’improvviso, sorridendogli bonariamente.

Sembrava gli avesse letto la domanda nel pensiero. Aveva barba e capelli candidi. Lunghi e folti. Sopracciglia spesse e cespugliose e occhi verdissimi. Troppo vividi e reattivi per un uomo così anziano.

Jo strizzò gli occhi e tentò di rispondere alla domanda del vecchio ma, dalla sua gola, non emerse che un gracchiare confuso. Aveva le corde vocali in fiamme, come se avesse gridato per ore. Questo sforzo gli riportò alla mente il dolore diffuso che sentiva in tutto il corpo e tutti i sintomi precedenti tornarono ad infliggergli sofferenza. Lasciandolo più spossato e confuso che mai. Ma cosa diavolo gli era successo?

L’uomo su di lui fece una smorfia.

“Credo sia giunto il momento di spiegarti”, aggiunse sibillinamente. Ma a quella frase, una serie di rumori e versi strani giunsero alle orecchie di Jo, che s’irrigidì e voltò leggermente il capo per scoprire, finalmente, l’origine di quel ronfare sconosciuto.

Si trovava, come aveva già notato, in uno spiazzo erboso al centro di un cerchio di alberi fitti e scuri. Tanto alti e folti da schermare quasi del tutto la luce del sole. Accanto a lui c’era il vecchio, vestito di una tunica nera e lunga fino ai piedi. Una lunga catena d’oro, con uno strano simbolo, gli pendeva dal collo.

Jo spostò ancora la testa, nonostante la rigidità muscolare ed il dolore acuto, e ciò che vide, lo lasciassero ammutolito. Semmai avesse avuto la voce per esprimersi, avrebbe gridato.

Era accerchiato… Attorno a lui vi era uno schieramento senza precedenti, copriva quattro file e lo attorniava completamente da ogni lato.

Non si trattava di un esercito di uomini. Ma di un assembramento allo stesso tempo curioso e inquietante di… gatti.

Gatti ovunque, in ogni angolo e su ogni lato. Di ogni colore, razza e dimensione. Lo fissavano con i loro occhietti luminosi e vigili. Sembravano pronti a saltargli al collo al primo movimento. L’immagine, pur se apparentemente innocua, risvegliava in Jo una sensazione sgradevole di allerta e presentimento. Insieme a qualcos’altro.

Ricordi, rimembranze. Immagini sopite di un passato che rimaneva ancora oscuro. I suoi sensi erano totalmente in allerta.

Il vecchio sospirò e, con delicatezza e determinazione, circondò le spalle di Jo per aiutarlo a tirarsi su.

Lui si fece sollevare, nonostante i dolori esplodessero da ogni centimetro quadrato del suo corpo.

Poi una sensazione sovrastò le altre. Jo spalancò occhi e narici e si volse a guardare il vecchio negli occhi. La consapevolezza ed il riconoscimento erano giunti all’improvviso ma nettamente.

“Napoleone!”, gracchiò in maniera quasi inintelligibile, riconoscendo, nell’uomo che lo stava aiutando, il felino che lo aveva accompagnato per quattordici anni.

Un’idea assurda. Folle. Da delirio.

Probabilmente le ferite di cui il suo corpo era cosparso gli avevano fatto salire la febbre e lui stava dando i numeri. Eppure era certo di ciò che aveva intuito. Quel vecchio era Napoleone.

Impossibile ma vero.

“Ci sei arrivato, finalmente”, gli confermò infatti lui, sorridendo. Si mise in ginocchio al suo fianco e portando le mani distese in avanti, chinò la fronte fino a toccare, quasi, il terreno.

“Sempre qui per servirvi, altezza”, mormorò inchinandosi a lui, come se fosse stato, in effetti, al cospetto di un sovrano.

Jo era sconvolto ma, non fece in tempo a realizzare quanto Napoleone aveva detto e fatto, che un assordante soffio felino giunse dai gatti che lo circondavano. Evidentemente erano infastiditi dalla scena, pensò Jo con una strana lucidità.

“Questo è ancora da vedere”, sentenziò con vigore la voce di una donna. Sovrapponendosi all’improvviso ai miagolii eccitati.

Questa volta Jo non poté fare a meno di voltarsi istantaneamente. Nonostante il suo corpo martoriato protestasse ad ogni movimento.

Semi nascosta nell’ombra c’era una figura femminile, sovrastava la popolazione felina che la circondava come un manto protettivo.

Il cuore di Jo mancò un colpo.

Con la grazia di una regina, si fece avanti, emergendo dall’ombra. Con movimenti sicuri e sinuosi attraversò l’assembramento di gatti, che al suo incedere fecero largo come sudditi rispettosi. E venne alla luce puntando il suo sguardo feroce dritto su Jo.

Era bellissima, nonostante fosse anche lei ricoperta di graffi e sangue. La pelle era scura, ambrata. Il corpo flessuoso ma forte. I serici capelli neri le arrivavano alla vita e sul suo viso perfetto spiccavano degli occhi meravigliosi ed inquietanti al tempo stesso.

Erano occhi troppo familiari per non riconoscerli. Troppo reali per non mandare Jo in iperventilazione. Troppo simili a quelli dei suoi incubi.

Occhi verdi. Gli occhi di una pantera e quelli di una bambina. Quelli dei suoi sogni da fanciullo e dei suoi incubi recenti. Gli stessi che vedeva riflessi in uno specchio tutte le mattine.

E il cervello di Jo esplose di nuovo. Immagini si susseguirono in un vortice di dolore, caos e confusione. Vedeva sangue, zanne che laceravano, ruggiti che squarciavano il silenzio. Sentiva il dolore delle ferite, il sapore del sangue in bocca e la ferocia che gli aveva attraversato le membra ed i pensieri.

E poi ancora loro. Gli occhi del suo passato. Gli occhi della bestia.

Appartenevano a lei. Colei che rappresentava la sua nemesi e l’altra parte di sé stesso. Appartenevano alla sua gemella.

Sua sorella, Amhal.

 


 
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